Cinema - Filmati

Teresa guarda il film

proposto dalla Redazione

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Il 27 gennaio 2021, in occasione del Giorno della Memoria, il nostro Enzo Di Giovanni ebbe a scrivere:
Il giorno della memoria lo si può raccontare in tanti modi diversi.
Qualche anno fa con alcuni amici ebbi la fortuna di incontrare in una affollata sala del Comune di Formia Teresa Vergalli: una donna ancora giovane con i suoi novant’anni indossati magnificamente, elegante nella sua sobrietà.
Cì raccontò degli anni in cui era staffetta partigiana col compito di inviare informazioni e trasportare munizioni e documenti. Una funzione di collegamento importantissima tra una brigata partigiana e l’altra. Importante e pericolosissima.
Ricordo la serenità, la pacatezza con cui ci disse che le più fortunate, oltre a nascondere nel doppiofondo di una borsetta la merce da consegnare, avevano una piccola rivoltella con un solo colpo: quello con cui uccidersi in caso di cattura per evitare la possibilità di tradire rivelando sotto tortura il nome di un compagno.
E di quando ritrovò, dopo tanti anni, con grande sorpresa perché convinta fosse morta, una compagna che era stata catturata durante una missione.
Teresa ci racconta l’orrore, ma con la leggerezza di chi è dalla parte giusta della Storia, quella del torto subito. Parla di sevizie fisiche e morali, di capezzoli ed unghie strappate con le tenaglie alle ragazze – in gran parte minorenni –  catturate dai fascisti.
La sua voce si incrina, però, in un momento preciso: quando dell’amica ritrovata riporta i turbamenti, il desiderio di scomparire al mondo, desiderio che l’aveva portata all’oblio”.

È ancora Teresa Vergalli, la partigiana Annuska, ora con sei anni di più sulle spalle, a commentare con Simonetta Fiori di Repubblica il film “C’è ancora domani” di Paolo Cortrellesi di cui ha scritto su questo sito Sandro Vitiello (leggi qui), e le sue impressioni sul film, le sue parole, lette con l’attenzione che si deve ai testimoni di una stagione che non dobbiamo dimenticare.

La storia
C’è ancora domani per la partigiana Annuska
di Simonetta Fiori

– Abbiamo visto il film di Paola Cortellesi insieme a Teresa Vergalli staffetta della Resistenza. “Che emozione, è tutto come allora Quest’opera è un grande dono alle donne e alle loro battaglie”
– Si fa silenziosa quando la cinepresa indugia sulla quotidianità in bianco e nero del quartiere Testaccio
– “Nella campagna lungo la via Emilia facevamo lezione di voto: insegnavamo alle donne, spesso analfabete, a compilare la scheda”

«A bocca chiusa, a bocca chiusa», canticchia Teresa alla fine del film. E all’improvviso sembra una ragazza, una di loro, una delle tante donne accalcate davanti al seggio per la loro prima volta. La canzone di Daniele Silvestri acquista un passo ancora più saltellante nelle labbra di questa giovane signora di 96 anni che la bocca chiusa non l’ha tenuta mai. Teresa Vergalli, ex partigiana della Val d’Enza, nome di battaglia Annuska, centinaia di chilometri macinati in bicicletta, la piccola pistola nascosta sotto la maglietta.
«Sai quante cose si possono fare a bocca chiusa? Come dice la canzone: partecipazione certo è libertà, ma è pure resistenza».

Il 2 giugno del 1946 aveva diciannove anni, quindi non abbastanza per mettere la sua croce sulla scheda, ma già matura per insegnare alle donne a compierlo, quel gesto rivoluzionario. E ora lo rivive davanti al magnifico film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, un atto d’amore per le donne e per il cinema che torna a farsi rito collettivo.
«Casa per casa, nella campagna lungo la via Emilia, facevamo lezione di voto: con il facsimile della scheda mostravamo come aprirla, tracciare il segno, poi a chiudere la busta senza stropicciarla. C’era una grande eccitazione, le donne si sentivano onorate da quella convocazione, ma molte temevano di sbagliare perché avevano mani callose, abituate alla zappa più che alla pagina scritta. E in tante erano analfabete, incapaci di distinguere un simbolo dall’altro. E noi le rassicuravamo: andate tranquille, è il vostro giorno! La scelta questa volta è solo vostra, di nessun altro».

Se la ricorda bene quella domenica di giugno, quando la mamma, le zie, le sue amiche correvano contente al seggio stringendo in mano la tessera elettorale come un biglietto d’amore. «L’acconciatura era proprio quella, anche i vestiti della festa, il filo di rossetto sulle labbra. E le facce. Sono le facce del dopoguerra, ingenue, disarmate, timide, trattenute dalla fame e dal pudore. Ma come ha fatto la regista a trovare quelle facce?», scherza Teresa sapendo che è tutta bravura degli attori. E la più brava le appare proprio la protagonista, Delia, «dolcemente arresa alla vita e a una condizione di minorità come lo erano le mogli di quel tempo ».

Anche molte partigiane furono ricacciate nell’ombra, espropriate dei meriti, scippate soprattutto del loro protagonismo. Non parla di sé Teresa, riconosciuta dallo Stato come combattente della Brigata Garibaldi. Parla delle sue compagne rimaste nel retropalco della Storia.
«Avevano vissuto una stagione eroica per poi ripiombare zitte e buone nei ranghi decisi dal patriarcato. Perché in fondo che cosa avevano fatto? Nulla, dicevano le donne. Non abbiamo fatto nulla. E ovviamente solo in questo gli uomini ci davano retta».

E ora le sembra di rivivere quei giorni, tutto le appare eguale, la retina per la spesa fatta a uncinetto, la vecchia Singer, il catino con l’acqua gelida, il pappagallo, la sigaretta come supremo gesto di ribellione. Perfino l’altezzosa serva-padrona Adelina le ricorda le domestiche delle case borghesi, le peggiori di tutte, dice, perché volevano comandare. E quando Delia si lamenta della sua paga inferiore rispetto al salario del maschio — «ma quello è omo», si giustifica il datore di lavoro — Teresa s’arrabbia, proprio come allora. «Ma tu lo sai che le contadine non erano riconosciute dai contratti di mezzadria? Il padrone non le considerava forza lavoro». Lei ha fatto tante battaglie, ancora prima della Liberazione, nei collettivi femminili dei Gruppi di Difesa delle donne. «Ma era tutta teoria, poi nella pratica eravamo sottomesse ai dirigenti maschi».

«Zitta tu che sei donna», «nemmeno la serva sai fare», così Ivano incalza la moglie Delia per tutto il film. A Teresa non l’ha mai detto nessuno, ma le torna in mente la sua amica Laila, che lo sentiva dire a casa dei vicini: ma che ne sai tu del mondo? L’8 settembre del 1943 Laila aveva aiutato i soldati a scappare dalla caserma, ma una volta salita in montagna subì il ricatto del suo fidanzato, un operaio delle Officine Reggiane: se non torni in pianura non sei degna di essere madre dei miei figli. «Noi donne partigiane eravamo considerate delle poco di buono, esposte alla tentazione dei corpi maschili. Bastava poco per sporcare di malizia lo sguardo della gente, anche accettare un regalo dai soldati americani».
Per una tavoletta di cioccolata Delia-Paola Cortellesi finisce per buscarle dal marito violento, perché questo succede solo alle baldracche, inveisce Ivano, alle ragazze che fanno le scivolose per strada. «Vedi, lei resta in silenzio, non parla, non tenta nemmeno di spiegare come ha ricevuto la cioccolata dal militare afroamericano. Ammutolisce perché sa che la sua parola non conta nulla». Bravo, bravissimo Valerio Mastandrea nel dar vita al coniuge energumeno. «E che coraggio ad accettare un ruolo così respingente. Non tutti erano come Ivano, ma c’erano uomini come lui. Attraverso le pareti risuonavano non le urla delle donne ma i colpi sordi delle percosse, e nessuno interveniva perché era normale così».

Si fa silenziosa Teresa quando la cinepresa indugia sulla quotidianità in bianco e nero del Testaccio, il sottano immerso in un buio pesto, la polvere, i tessuti strappati, due bambini per un unico letto. «Fin troppo lusso», dice a sorpresa. «Ma qui siamo in città, per giunta a Roma. Noi non avevamo i quadri, solo un’immagine sacra di santa Lucia con gli occhi in mano: se ci penso mi fa ancora paura».

Figlia di contadini emiliani, è cresciuta nella campagna povera di San Polo Denza dove i pagliericci pizzicavano per le foglie appuntite di granturco e i materassi venivano fatti con le piume di gallina. «La mamma ha fatto molti sacrifici per mandarmi a scuola. Le sorelle di mio padre la provocavano: ma sei matta a risparmiare per far studiare una femmina?». Sullo schermo scorrono le immagini di Delia che mette da parte i soldi per la figlia Marcellina. «La scuola era l’unica strada verso l’emancipazione. La cultura, non il matrimonio».
E ride di gusto quando saltano le nozze di Marcellina per una ragione che non possiamo rivelare.

Teresa ha avuto una vita felice, un marito amorevole e il suo bel lavoro di maestra elementare. Ma è sempre stata vicina alle lavoratrici meno fortunate di lei. «Che bello!», ripete più volte alla fine del film, quando le donne con il voto acquistano finalmente il diritto di parola. E se avesse vicino Delia-Paola Cortellesi l’avvolgerebbe in un abbraccio silenzioso come fa ora con Mariana, la sua assistente rumena che le violenze maschili le ha patite sulla pelle. Ma non nel secolo scorso, solo pochi anni fa. Alta, mora, l’ovale del volto ben disegnato, Mariana se ne è stata immobile per tutto il tempo, ma davanti alla danza degli schiaffi gli occhi le diventano lucidi, e restiamo tutte in silenzio, aspettando che finisca. È una delle immagini più poetiche del film, la violenza rivissuta attraverso il ballo e una canzone, Nessuno, che raggela respiro e sentimenti.
«Una trovata geniale »
, dice sommessa Teresa. «È la proiezione della donna violata che nasconde a se stessa la brutalità del marito raccontandosela come un gesto amoroso». Allora come oggi, in questo poco è cambiato.
«Per me le botte erano ordinaria amministrazione»,
confida Mariana. «Facevano parte del matrimonio e dell’esistenza di una donna. È stato lo sguardo pieno di dolore di mia figlia a farmi capire che dovevo cambiare vita». Ora la figlia è cresciuta e vive in Romania con un fidanzato geloso. Mariana vuole che veda il film. «È ancora in tempo per salvarsi», dice.

C’è ancora domani parla in modo sorridente a tutte le donne, a quelle di ieri e alle ragazze di oggi, sospese in una storia di liberazione mai conclusa.
«Ora capisco perché in sala ci sia tanta emozione»
, interviene Teresa. «Anche le donne più emancipate riconoscono nel film una parte nascosta di loro perché la dipendenza dal maschio non è finita. E ancora in troppi campi c’è discriminazione. Ogni tanto mi chiedo: ma cosa abbiamo lottato a fare se c’è ancora tanta violenza? Certo, sì, ne è valsa la pena. Ma siamo rimaste indietro, la strada è ancora lunga».
Poi riprende a canticchiare la canzone di Silvestri, mentre nello schermo le ragazze del 1946 fanno squadra intorno a una Delia rinata, e non si sa se applaudire loro o questa loro coetanea, che le guarda settant’anni dopo con tenerezza e rimpianto.

Teresa Vergalli

Fiction e realtà. Gruppo di famiglia e (sotto) Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea nel film

L’articolo di Simonetta Fiori del 16 nov. 2023 (file .pdf di due pagine):
La Repubblica 17 novembre 2023. pp 38-39

3 Comments

3 Comments

  1. Sandro Russo

    18 Novembre 2023 at 12:14

    Mi sono stupito alquanto nel trovare ancora folla e file per il film C’è ancora domani, al cinema Multisala di Genzano dove sono andato ieri sera per un altro film; a distanza di un mese dall’uscita e in una sala tutto sommato periferica (rispetto alla capitale).
    Bene abbiamo fatto sul sito a dedicare ad esso non uno, ma due articoli; con quella folla non è più il richiamo di un film di successo, ma un fenomeno di costume!
    E c’è già chi propone Cortellesi for President alle prossime elezioni!

  2. Patrizia Montani

    19 Novembre 2023 at 15:10

    Alcune riflessioni a ruota libera.
    Sono davvero molto stupita dell’accoglienza ricevuta dal film di Paola Cortellesi: sale piene, applausi a scena aperta e alla fine, i miei amici tutti entusiasti, chi più chi meno.
    A me il film non è piaciuto e uscendo dal cinema mi sono chiesta come mai non ci fosse nemmeno un po’ di dibattito, un’ombra di dubbio, qualche piccola, sana polemica.
    Mi sono data questa risposta: il film è considerato bello al di là di ogni ragionevole dubbio perché parla della violenza sulle donne, ovvero per il suo contenuto.
    Ora, come si diceva stamattina sulla chat, non si dovrebbero scrivere film o libri per dimostrare qualcosa, non si dovrebbe partire con una tesi precostituita, ma ammettiamo anche che lo si voglia fare in questo caso, vista la gravità del fenomeno violenza-sulle-donne.
    Ebbene se lo vogliamo fare facciamolo, ma che non si valuti un film per questo.
    Ragazzi, già dai nostri studi liceali abbiamo imparato che la forma, lo stile fanno di un’opera un’opera d’arte, non il contenuto.
    Pensateci un momento: se così fosse sarebbe quasi tutto da buttare quello che è stato scritto e filmato fino ad oggi. Un capolavoro come Lolita di Nabokov sarebbe da bruciare o almeno da mettere all’indice. E infatti qualcuno ci sta già pensando.
    E pensate agli errori madornali della sinistra quando, in nome del “giusto messaggio”, ostracizzava Visconti, Pasolini, Moravia, Fellini e chissà quanti altri, colpevoli di non dare il “messaggio” giusto alle popolazioni da educare.
    Dunque analizziamo il film per come è fatto e non per quello che dice (o tenta di dire).

    I dialoghi. Sono beceri più del necessario, sono sovraccarichi. Quei personaggi con quei dialoghi starebbero bene nelle barzellette o nell’avanspettacolo, non in un film impegnato. Lo stesso dicasi dei personaggi.
    Non si fa un buon servizio alla causa femminista descrivendo personaggi come quello di Ivano e di suo padre così rigidi, a una sola dimensione che non esistono in natura (per inciso, l’associazione femminista “Non una di meno”, per questo motivo ha stroncato il film). Questi, ancora una volta sono personaggi che stanno bene nelle barzellette. Tutto è semplificato in modo puerile; i genitori del ragazzo sono burini arricchiti con la borsa nera e i due unici uomini perbene sembrano ebeti.
    E’ troppo. Verrebbe voglia di dire: Basta, Pietà. Fatemi rivedere, vi prego Sofia Loren ne Una giornata particolare, fatemi sentire il tocco leggero di un grande regista!
    Una scena mi era sembrata azzeccata all’inizio, quando Delia apre la finestra, canzone che canta la primavera ed entra del fumo grigio.
    Fermati benedetta figlia, basta così!
    Perché ci devi mettere anche il cane che fa la pipì sul davanzale che rovina tutto?

    Sandro non è d’accordo con l’amica storica Patrizia, chiede chiarimenti, ma dopo averle chiesto il permesso decide di pubblicare questa “diversa opinione” civile e cinefila.
    Così è proseguito (via whatsapp) lo scambio tra loro…

    Sandro – Pat Pat, chi sono gli unici due uomini per bene… l’americano nero e il fidanzato di gioventù?

    Patrizia – No, il fidanzato è fasullo, per questo il bar salta per aria. Il secondo è il marito della verduraia.

    Sandro – Però è proprio quello che vuole dimostrare: che il fidanzato è come Ivano da giovane. E il marito della verduraia ci sta, come esempio di uomo sopraffatto dalla moglie. Non sono d’accordo che li ha mal presentati; caso mai è – non il vecchio suocero (che è perfetto così) – ma Ivano, il marito, esageratamente truce, mai una crepa nell’arroganza, mai un gesto di gentilezza e di affetto.

    Patrizia – Lo vedi? Non sembra anche a te che i personaggi siano un po’ tagliati con l’accetta?
    Purtroppo, amico mio, questi che maltrattato (o uccidono) le donne raramente sono come quello lì; sono quasi sempre ben confezionati, carini, a volte sexy e affascinanti ma hanno personalità complesse, più sfaccettature. Considerano le donne oggetti di loro proprietà, non sopportano che le donne siano autonome, pensanti, magari più brave di loro.
    Del resto lo sai…
    Io però l’ho vista dal punto di vista cinematografico, e dei personaggi presentati diversamente sarebbero stati più credibili, più belli da vedere e il film più denunciatario nella sostanza.

  3. Guido Del Gizzo

    19 Novembre 2023 at 20:59

    “Delicata e fragile come una pallina di vetro dell’albero di Natale”

    E’ la definizione che una mia splendida amica, negli anni ’70, diede della sessualità e delle vicende amorose, ritrovandosi a commentare le affermazioni di uno che ne parlava a sproposito: molti anni dopo, dovendo crescere due figlie femmine, mi è stata molto utile.

    Non andrò a vedere il film di Paola Cortellesi, perché mi aspetto l’ennesimo “pistolotto” sulla laboriosa, ancorchè ironica, presa di coscienza sulla condizione femminile e l’ennesima, ancorchè ironica, approfondita osservazione del nostro ombelico: perché il cinema italiano, negli ultimi trent’anni, è stato praticamente solo questo.

    Dopo i Monicelli, gli Scola, i Magni, Damiani, Lizzani, Leone degli anni ’70 e ’80, il nostro cinema ripropone in tutte le salse, tutte dello stesso sapore, le visioni nevrotiche di Verdone e Buy, le macchiette di Leo, le toscanate di Virzì e Pieraccioni e l’approccio ironicamente montessoriano di Paola Cortellesi sulla condizione femminile: “Nessuno mi può giudicare”, “Scusate se esisto”,etc.

    Velo pietoso su Benigni e Moretti.

    Mi scuso con gli appassionati di cinema nostrano per questa provocatoria premessa, ma serve a commentare la proposta della neo regista Cortellesi a Giorgia Meloni, sul tema della violenza di genere.

    L’evidenza è che le donne mie coetanee, o addirittura più giovani, ci hanno consegnato una generazione di maschi vanitosi e fragili, incapaci di affrontare un rapporto paritario con l’altro sesso e, contemporaneamente, dotati di un “armamentario culturale” e di una presunzione predisposti solo per la sopraffazione: poi il Covid degli ultimi anni e i supporti digitali, entrati prepotentemente nelle nostre vite, hanno cancellato l’unica palestra utile per affrontare il problema, perchè, ormai, i rapporti personali reali sono solo una piccola parte dei rapporti sociali degli adolescenti, e non solo.

    Il film che la Cortellesi non ha ancora interpretato, né diretto, è quello che spieghi perché, dai movimenti degli anni ’70, ci ritroviamo la Lagarde, a far danni, prima al FMI e poi alla BCE: ricordiamoci che la Lagarde prese il posto, in fretta e furia, di Dominique Strauss Kahn, socialista e noto puttaniere, travolto da uno scandalo a sfondo sessuale con una cameriere dell’albergo in cui risiedeva, la cui scena, casualmente, fu ripresa dettagliatamente da varie telecamere.

    “DSK” era noto per questi episodi, ma la sua colpa più grave è stata quella di prendere in considerazione, da presidente del FMI, la riduzione del debito dei Paesi in Via di Sviluppo: avrebbe potuto violentare, impunito, tutte le donne del mondo, ma quello, proprio non doveva farlo.

    Quindi, per i destini del mondo, meglio uno sporcaccione che una raffinata signora francese? Certo che no, ma ci piacerebbe un’alternativa decente.

    La brava Cortellesi, in vena ecumenica come Benigni alla consegna degli Oscar, si rivolge a Giorgia Meloni per contrastare la violenza di genere, magari una bella legge sull’educazione sentimentale nelle scuole, copyright Elly Schlein.

    Ora, io credo che sia vissuta in Italia, negli ultimi anni, per avere un’idea di chi sia la sua probabile interlocutrice.

    La carriera politica di Giorgia Meloni inizia in Alleanza Nazionale, dove cresce con gli eredi dell’MSI, tutti femministi, come Ignazio La Russa, per dirne uno, quello “certo” che il figlio non abbia sulla coscienza nulla di penalmente rilevante.

    Poi si sviluppa nel Polo delle Libertà, all’ombra di un campione dell’emancipazione femminile come Silvio Berlusconi, nel cui governo spicca, da ministro per la gioventù, per l’assoluto mutismo sulle note vicende riguardanti la “nipote di Mubarak”.

    Oggi sappiamo che Fratelli d’Italia fu fondata con 750.000 € arrivati proprio da Forza Italia e che la nostra Giorgia nazionale si è subito circondata di figure femminili edificanti, come Daniela Santanchè, ad esempio.

    I suoi rapporti internazionali spaziano da Orban, con cui condivide la difesa della famiglia, dell’identità e, già che c’è, addirittura di Dio, a VOX, ai cui raduni partecipa in modo sobrio ed elegante.

    Non stupisce quindi che, culturalmente, si rifugi nel fantasy, tra la Compagnia dell’Anello di Tolkien e il Nulla che avanza di Michael Ende (La Storia Infinita) e, non contenta, ha vissuto dieci anni (e fatto una figlia) con Andrea Giambruno, mediocre maschio italiota: barzellette da Bar Sport, volgarità naturale, luoghi comuni e hair stylist per il ciuffo.

    Ovviamente, non le è sembrato vero che le proponessero di parlare di violenza di genere invece che di migranti, salari, sanità o inflazione…..

    Adesso, vi immaginate l’esecutivo di Giorgia Meloni che incarica Sangiuliano (Cultura, quello che Dante è il padre della destra italiana)), Roccella (Parità di genere, femminista pentita, militante della disapplicazione della legge sull’aborto) e Valditara (Istruzione, quello del valore educativo dell’umiliazione) di affrontare il tema dell’educazione affettiva nelle scuole?

    Penso ancora che sia una faccenda delicata e fragile, come una pallina di vetro dell’albero di Natale, quella dell’educazione sentimentale dei giovani, soprattutto in questo tempo.
    Perciò l’unico commento che mi viene, per dirla in romanesco, come i testi del film della Cortellesi è: “A mme me sembri scema..!”

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