Politica

Tutto quel che (non) avremmo voluto sapere sulla censura

segnalato da Sandro Russo

.

Il commento
Il potere e l’eterna paura della parola
di Ezio Mauro – Da la Repubblica del 4 maggio 2024

Indossavano la toga con il bordo rosso dei magistrati, prendevano posto sull’avorio della sedia curule, e in segno di distinzione da morti potevano essere ricoperti da un manto purpureo: fin da 453 anni prima di Cristo i due censori esercitavano la loro autorità su Roma amministrando il censo, cioè i ruoli e i beni dei cittadini, registrando gli schiavi e il bestiame, i campi e le case e fissando così l’imponibile. Ma il loro vero potere si manifestò quando si attribuirono la facoltà di esercitare il “iudicium de moribus”, cioè il compito di valutare comportamenti e costumi del popolo, sanzionando le condotte moralmente e civilmente riprovevoli, fino alla perdita del diritto di voto.
Era nata la censura nel senso etico-politico del termine, quell’esercizio di intromissione, controllo e riprovazione da parte del potere ufficiale sui comportamenti, le espressioni e le abitudini dei cittadini che in misura diversa accompagnerà tutta la storia della civiltà da Servio Tullio ad oggi, come un’ombra permanente e una tentazione costante nel rapporto tra la libertà dell’individuo e la sovranità dello Stato.

Si potrebbe dunque scrivere una storia della censura attraverso duemila anni, come strumento di controllo sociale, di dominio politico, di interdizione culturale: ma in realtà come meccanismo mimetico che si trasforma secondo le epoche e le condizioni, adattandosi alle diverse temperie e ai differenti sistemi di organizzazione della società, mantenendo comunque e sempre la caratteristica fondamentale di un’interferenza del potere nel libero dibattito delle idee e di una sua intromissione impropria, fino a configurare un vero e proprio atto arbitrario, quindi un abuso.
La censura infatti agisce come uno scudo preventivo del sovrano che nega in quell’atto un dovere e un diritto, consentendo all’autorità legittima di vietare o ridurre la circolazione di idee, formule e concetti giudicati pericolosi, e nello stesso tempo impedendo ai cittadini di conoscere quelle manifestazioni di pensiero che turbano il potere, per paura di un possibile contagio.

Sta esattamente qui, nel carattere elementare e primordiale del timore sovrano, la ragione della censura perenne, almeno come inclinazione del potere. Un gesto di arroganza e di debolezza. Vietare è più facile che spiegare, cancellare è più illusorio che convincere, reprimere è più definitivo che rispondere. Impedire a un pensiero critico di strutturarsi ed esprimersi tranquillizza l’esercizio del comando, stanco e insicuro nell’affrontare la battaglia delle idee davanti alla popolazione, senza rete di protezione.
Meglio oscurare le idee altrui, sgomberare il campo, lasciare il terreno libero perché il pensiero egemone dispieghi la sua propaganda senza avversari, esercitando l’arte della persuasione sovrana. Non basta la seduzione propria dell’autorità legittima, il suo potere di definizione e interpretazione della realtà, la sua facoltà suprema di annunciare l’inizio e la fine di ogni crisi, e quindi di decretare lo stato d’emergenza e nei casi estremi anche lo stato d’eccezione. No, il sovrano contemporaneo vuole di più, vuole una rassicurazione semplice e definitiva, che si può riassumere in una formula che attraversa i secoli ed è valida ancora oggi: purché il popolo non sappia.

Così la modernità temperata dalla democrazia ritrova l’eco dell’età degli istinti, quando la sacralità del potere giustificava ogni misura a tutela del dominio, perché ogni critica sconfinava nel peccato, configurando un’eresia.
Soltanto che nella società dei mille frammenti d’opinione in cui viviamo non si riesce a costruire una pubblica opinione compatta azzerando il pensiero non conforme, perché il silenzio è ormai impossibile e la libertà di opinione si può soffocare ma non sopprimere: il popolo saprà comunque.

La moderna forma di censura è dunque l’ostruzione degli spazi, il divieto di entrare nella pubblica agorà, il passaggio dalla lottizzazione all’occupazione della principale macchina del consenso, la televisione. Il risultato è un’atrofizzazione del dibattito, per forza di cose mutilato e asimmetrico, con le posizioni critiche espunte e un controllo rigido degli accessi a quello spazio comune in cui si formano le correnti d’opinione. Come se il cittadino dovesse essere custodito, preservato, messo al riparo da quelle correnti, per essere poi esposto soltanto al flusso benefico e benedetto del pensiero dominante. Si immiserisce fin qui la grande sfida per l’egemonia culturale lanciata dalla destra estrema, bestemmiando Gramsci: semplicemente, siamo davanti all’eterna paura della parola da parte del potere, che prova a cancellarla sperando di annullare così anche il concetto da cui nasce, che lo spaventa. Dimenticando la lezione di Walter Lippmann, per cui le idee di cui gli uomini dispongono sono molte di più delle parole con cui le esprimono, e sono insopprimibili.

[Ezio Mauro in la Repubblica del 4 maggio 2024]

Clicca per commentare

È necessario effettuare il Login per commentare: Login

Leave a Reply

To Top