Architettura

Renzo Piano, una sua opera in Turchia

segnalato da Sandro Russo, da un articolo di  Repubblica

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Seguiamo sempre con interesse le attività e le realizzazioni del nostro grande architetto nazionale in Italia e nel mondo – [per gli altri articoli digita Renzo Piano nel riquadro Cerca nel sito, colonna di sin., in Frontespizio]. Sono sempre notevoli, sotto il profilo architettonico, ambientale e un’impronta “umanistica’ che le rende uniche.
Qui, da la Repubblica di ieri, in un articolo di Francesco Merlo, che da qualche tempo lo segue con un’attenzione forse pari alla nostra.

NUOVI SPAZI
Con Renzo Piano nel museo laico della Turchia
di Francesco Merlo

Abbiamo seguito l’architetto che inaugura sul Bosforo “Istanbul Modern” un edificio di cinque piani con un tetto coperto d’acqua che si candida a diventare il tempio del contemporaneo e della libertà espressiva

Istanbul – Ha trionfato alle elezioni e forse davvero è, finora, il solo “vincitore” della guerra in Ucraina, ma con l’arte contemporanea il rais Erdogan, per una volta, non ce l’ha fatta. Finalmente, infatti, dopo sei mesi di ostruzionismo bizantino, Renzo Piano inaugura oggi il suo “Istanbul Modern” sul Bosforo delle meraviglie: «È stato il più tormentato dei miei edifici, non per costruirlo, benché il Covid impose la pazienza e aumentò la fatica, ma per l’apertura che veniva sempre rimandata sia per ragioni molto serie come il terribile terremoto e sia per ragioni imprendibili che appartengono, diciamo così, alla misteriosa legge della perversità delle cose».

Ovviamente, Renzo Piano non ha mai pensato di sfidare, come il prode Anselmo, il sultano “invincibile” e il suo tradizionalismo di «pipe, sciabole, tappeti, mezze lune, jatagan, odalische e minareti…». Ma, per forza spontanea, questo museo è diventato un simbolo che, durante la campagna elettorale, era già stato aperto, «in sapiente silenzio, come se avessero dimenticato socchiusa una porta, una fessura, dalla quale entravano da tremila a seimila visitatori al giorno», soprattutto giovani in cerca di quella Turchia europea che il dittatore sta cercando di spegnere con la terribile repressione.

È tardo pomeriggio e mischiandoci alla folla e andando su e giù per i cinque piani del museo, che ha un’estetica industriale, ci accorgiamo subito che non è più solo un museo, un qualsiasi museo del mondo, ma il luogo dove è stato appeso sui muri un bisogno condiviso, e dove, prima che nelle opere degli artisti turchi, alcune davvero formidabili, sono l’acciaio e il cemento, il vetro e l’alluminio a trasmettere questa energia di libertà. E la libertà diventa febbre quando l’ascensore si apre sul quinto piano e non c’è nulla di più sorprendente e superbo di vedere il soffitto che è un tappeto volante di acqua, dove si riposano i gabbiani che hanno trovato qui la loro stazione di posta.

Non è la banalità di una grande piscina né di una fontana, è invece un tetto di 650 metri quadri coperto da pochi centimetri d’acqua, un velo per specchiarsi, per vedere appunto i gabbiani che bagnano il becco, si riflettono e dunque si sdoppiano.
Con ironia convincono Renzo Piano a togliersi calze e scarpe e a camminare sull’acqua a piedi nudi e lo seguono, tutti scalzi, la moglie Milly, i curatori del museo, gli altri architetti che, dice Piano, «hanno fatto volare l’Istanbul Modern come un vascello».
È un ballo propiziatorio di luce e acqua.

Più tardi, negli straordinari riflessi del crepuscolo, da un lato l’orizzonte è il famoso skyline di cupole schiacciate, torri appuntite e minareti con il salmodiare del muezzin come colonna sonora, e dall’altro lato il Bosforo con le navi e i vaporetti, e qui «il suono è quello di Venezia», dice Piano. Sul soffitto d’acqua invece stridono i gabbiani, forse a ricordarci, quasi fossero campane, che l’arte smonta il pregiudizio, anche se non disarma la violenza, e che persino l’uccellaccio non è sempre un malaugurio.

Quando Erdogan ha telefonato, tra il primo e il secondo turno delle elezioni — «venerdì vengo» — l’edificio si era ormai trasformato da solo, con il passaparola, in una cittadella culturale della Turchia laica, e l’euforia contagiosa aveva acceso le emozioni come solo l’arte riesce ad accendere: l’arte nel piccolo fortino della modernità. E allora Erdogan è venuto perché in Turchia vale per i nastri lo ius primae noctis e dunque bisognava che il tiranno tagliasse o richiudesse.

Alla cerimonia, celebrata solo sulla stampa turca, Erdogan disse, pare senza troppa malagrazia, che tutto era bello, anzi bellissimo, «ma noi abbiano bisogno di tradizione», che è la scontata reazione antimoderna di tutti i regimi autocratici, non solo del Novecento: archi e colonne invece di acciaio e vetro. È dunque Erdogan che, a Bisanzio, ha dato il senso bizantino della “inaugurazione sì, però” di questo delicato bestione che per Renzo Piano «è un segno di pace», proprio come il Centro Culturale di Mosca che, racconta, Putin inaugurò e chiuse «ma, sebbene chiuso, adesso è frequentato come una piazza di pace, un luogo di quella pace che in Russia è vietata».

Il Ges-2 a Mosca [sul sito, leggi qui]

Non ci sono cartelli che indicano la direzione politica, ma i simboli si intrecciano ai simboli e, al primo piano, dietro una pesante tenda nera, a indicare l’oscuramento dei diritti, c’è una video-documentazione in quattro schermi di Kutlug Ataman, su quattro donne oppresse e represse, una delle quali era transessuale. Anche se Erdogan quel venerdì del nastro non le ha viste, le loro terribili storie di violenza alimentano la vita propria di un edificio di cultura, «quella con la c minuscola — dice Piano –: alla biblioteca di Atene, la metà dei visitatori non va per cercare libri, ma solo per stare lì, ritrovarsi insieme e magari accendere la critica. È la bellezza di cui parlo io, correndo consapevolmente il rischio di stufare, perché ormai la parola bello, in quasi tutte le lingue del mondo, rimanda alla pubblicità e al make-up. E invece cosa c’è di più bello di un luogo di civiltà, beautiful people , beautiful minds , beautiful ideas :cos’altro è il bello di un museo?».

Perciò ora, mentre andiamo in giro per la città che, dai turisti di tutto il mondo, viene ogni giorno riscoperta quasi quanto l’America, i turchi che riconoscono Renzo Piano non si limitano ai soliti selfie della popolarità, ma lo toccano, lo abbracciano, ed è commovente vedere due eleganti signore che, tenendosi per mano, lo ringraziano: «siamo fieri di vivere in una città dove c’è un museo così». L’architettura, dice Piano, «è una cosa seria che si misura con la durata. Quando con Richard Rogers andammo a parlargli, Pompidou ci disse: “Voi, giovani uomini, sapete che il vostro Beaubourg è lì per durare cinquecento anni?”». Si guardarono allegri: «E perché solo cinquecento anni?».

La durata è “la figura segreta” della costruzione, dell’edificazione: la durata è la forma delle cose, diceva Bergson. «L’Istanbul Modern è costruito per durare per sempre, e non solo perché la zona è fortemente sismica e qui, sotto di noi, c’è la stessa faglia che va a finire alle pendici dell’Etna, quella della catastrofe di Messina del 1908. Oggi, anche se la terra dovesse tremare, questo museo sarebbe un posto sicuro». Eppure è costato 35 milioni, davvero poco: «Ho detto al Papa, con il quale ho avuto l’onore di passare un po’ di tempo, che questo museo vale una missione di due ore di bombardamento di un caccia». Con il Papa «ci siamo ritrovati su tutto, lui pastore e io costruttore, anche perché siamo coetanei».

Gli impianti sono a vista, ma non sono colorati come al Beaubourg, le sale d’esposizione hanno un’altezza di 4,50 metri, i pavimenti sono in cemento come i pilastri rotondi e dovunque ci sono riflessi di luce: nelle ringhiere della scala, nei pannelli di alluminio verniciati, persino nei “sottoventi”, che sono diavolerie antisismiche.
I committenti sono una coppia di turchi liberali che somigliano al museo: «sono imprenditori, fabbricano ceramiche, e sono persone di pace e di arte anche loro». E «avevano il sogno di portare l’arte moderna sull’acqua del Bosforo» a partire da un vecchio deposito portuale, un bunker rettangolare sdraiato sull’acqua, del quale Renzo Piano ha mantenuto la forma.
Si chiamano, per chi riesce a pronunziarlo, Eczacabaşi, e i nomi, più facili, sono Oya e Bülent. Lei dice che Piano ha fatto «un miracolo».

La fotografo con lui di fronte all’edificio della libertà che è grigio argento. È il colore d’avvio delle ricostruzioni, il grigio di donne e uomini che nella Turchia dell’invincibile sanno stare sottovento, tengono il profilo basso ma incarnano fantasia ed equilibrio, la creatività e il non mollare, gente di sostanza e senza ciondoli, per la Turchia che nel soffitto d’acqua e nella forma rettangolare del museo — scrive Pamuk nella sua Istanbul — è l’architettura di Melling con «quel movimento orizzontale che gira in un mondo meraviglioso e felice con tutta l’ampiezza dello sguardo» di Oya Eczacabaşi che, dice Piano, «non solo di questo museo, ma di tutta Istanbul, è la Queen».

Immagine di copertina (da la Repubblica): Tappeto volante. Renzo Piano sul tetto coperto di acqua del museo con i curatori e altri architetti

Il museo visto dall’esterno

Piano fotografato con la committente Oya Eczacabaşi

In formato .pdf: La Repubblica del 20.06 2023. Renzo Piano. Turchia. pp. 30-31

 

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