Libri

Nel nome c’è già il presagio

di Tano Pirrone

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Una delle miriadi di cose che mi attraggono e assorbono le scorte di tempo superstiti sono le parole nuove, che non conosco o che ho magari sentito ma di cui non so con esattezza il significato e, immancabilmente, l’etimologia. Quest’ultima fornisce nella maggior parte dei casi e con sufficiente attendibilità l’origine lontanissima e legata alla necessità di chiamare, nominare l’oggetto (cosa, persona, fatto ecc.) perché il destino si compia, legge incontroversa: nomina sunt omina!

Come faccio anche per gli altri vizi, che mi trascino dietro da molti decenni, ho un apposito “luogo” in cui inserisco la parola e i suoi significati (presi, naturalmente, da diverse fonti, purché riconosciute autorevoli). Rifuggo dall’approssimazione e dalle ammucchiate pseudo-sapienziali che sfilano oggidì col cartello arcobalenante di “social”.

Alle prime gelide luci di oggi ero ancora pesantemente calafatato di sonno oscuro e inquieto, ma avevo già in mano il libro che mi sta amichevolmente avvincendo. A un tratto inciampo, non in una pietra d’inciampo [1], roba assai indigesta ai minus abentes pluriodiosi untori dei frastornati tempi nostri, ma in una parola nuova che mi riaccende la voglia di scrivere.

La parola (finalmente ci siamo) è: amortale.
È riportata da Yuval Noah Harari [2] a pag. 336 del suo libro Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità. Edito da Bompiani nella collana Tascabili (533). A che proposito? Siamo all’interno della Parte quarta La Rivoluzione scientifica, 14° capitolo La scoperta dell’ignoranza, esattamente nel paragrafo intitolato Il Progetto Gilgamesh.
Chi è (meglio “era”) Gilgamesh?

Eroe divinizzato del Vicino Oriente [3], le cui vicende sono narrate nel primo poema epico della storia dell’umanità giunto fino a noi: Epopea di Gilgameš [4]. Nell’opera in lingua accadica [5] sono narrate le imprese dell’eroe sumero-babilonese, per due terzi dio e per un terzo uomo (antiche e sperimentate forme di fluidità!), identificato da studiosi della materia con un sovrano sumerico [6] di Uruk [7], realmente esistito. Le gesta sono condivise da Gilgameš con l’amico fedele Enkidu (che muore nelle scorribande): lotte terribili contro mostri e animali divini e il viaggio dell’eroe nell’oltretomba per conoscere il segreto dell’immortalità (per far rivivere l’amico Enkidu). Tante avventure, tanti incontri indimenticabili, ma un insuccesso per lo scopo principale del viaggio.

Nello spazio oscuro di questo mistero avviene l’incontro fra il mito e la narrazione di Harari: non c’è stata quasi nessuna religione o ideologia che non abbia dato per scontato l’esito della vita nella condizione finale e irreversibile della morte (con necessarie incerte eccezioni, naturalmente!). L’islam, il cristianesimo, l’antica religione egizia, per citarne solo alcune, che cosa sarebbero senza la morte? Con essa bisognava scendere a patti e investire le proprie speranze in una vita ultraterrena.

Per gli uomini di scienza la morte non è un destino inevitabile: costituisce, al momento, soltanto un problema tecnico: si muore non perché gli dei lo abbiano deciso, ma a causa di malfunzionamenti tecnici, spesso concomitanti e interconnessi. Il progetto di punta della Rivoluzione scientifica è di dare all’umanità una vita eterna. I traguardi raggiunti (non consideriamo le liste di attesa nella sanità pubblica, altrimenti il ragionamento non funziona!) che qualche secolo fa, ma anche non molti decenni addietro, sarebbero stati inconcepibili, se non blasfemi.

Ci vorrà del tempo scrive Harari, non sappiamo quanto, ma quello è un traguardo che la scienza può raggiungere, la scienza che annovera nelle sue branche anche la nanotecnologia nel cui ambito si studia per «sviluppare un sistema immunitario bionico composto di milioni di nano-robot, che potrebbero abitare dentro il nostro corpo, aprire i vasi sanguigni che eventualmente si sbloccassero, combattere virus e batteri, eliminare cellule cancerose e persino invertire i processi di invecchiamento. Qualche studioso ha seriamente ipotizzato che entro il 2050 alcuni umani potrebbero diventare “amortali”…»: eccola la parola, il neologismo d’apertura, l’anelito che mi ha portato a scrivere, oggi, tornando nella vecchia palestra. “Amortali”: non immortali, perché potrebbero sempre morire per qualche incidente (o per “caso” di guerra, che è “incidente non casuale”), in assenza del quale la loro vita potrebbe prolungarsi indefinitamente.

Si aprono riflessioni e scivola nella mente l’acre umore dell’italico scetticismo: la pensione chi la paga? La Fornero (o chi per lei, che amortale non è) sarà ancora disponibile a drizzare le gambe ai cani? E l’amorale Salvini che farà?

 

Note

[1]  – Pietra d’inciampo. Un piccolo blocco quadrato di pietra (10×10 cm), ricoperto di ottone lucente, posto davanti alla porta della casa nella quale ebbe ultima residenza un deportato nei campi di sterminio nazisti: ne ricorda il nome, l’anno di nascita, il giorno e il luogo di deportazione, la data della morte.
In Europa ne sono state installate oltre 70.000, la prima a Colonia, in Germania, nel 1995; sono le “Pietre d’Inciampo”, Stolpersteine, in tedesco, iniziativa creata dall’artista Gunter Demnig (nato a Berlino nel 1947) come reazione a ogni forma di negazionismo e di oblio, al fine di ricordare tutte le vittime del nazional-socialismo, che per qualsiasi motivo siano state perseguitate: religione, razza, idee politiche, orientamenti sessuali.

[2] – Yuval Noah Harari. Storico e filosofo, è autore di best-seller – 40 milioni di copie vendute in 65 lingue – che lo hanno reso uno degli intellettuali più influenti dei nostri giorni. Nel 2019 insieme al marito Itzik Yahav ha fondato Sapienship, una società sostenibile che si occupa di progetti con finalità educative e d’intrattenimento sulle grandi sfide che il mondo di oggi si trova ad affrontare. Di Harari Bompiani ha pubblicato Sapiens. Da animali a dèi (2014), Homo Deus. Breve storia del futuro (2017), 21 lezioni per il XXI secolo (2018), i due volumi del graphic novel Sapiens (La nascita dell’umanità, 2020, e I pilastri della civiltà, 2021), con le illustrazioni di Daniel Casanave e David Vandermeulen, e Noi inarrestabili. Come ci siamo presi il mondo (2022), il primo volume della serie per ragazzi illustrata da Ricard Zaplana Ruiz.

[3] – Vicino Oriente. è un’espressione che è propriamente usata per indicare la regione geografica estesa dalla sponda orientale del Mar Mediterraneo all’Altopiano Iranico e alla Penisola Arabica esclusi. Termini connessi sono “Levante”  e “Asia Anteriore” (delimitata tradizionalmente da Mediterraneo orientale, Mar Rosso, Golfo Persico, Hindu Kush, Mar Caspio e Mar Nero.

[4] – Franco Battiato ha composto un’opera lirica dedicata a Gilgamesh. L’opera, la seconda dopo Genesi del 1986, in due atti debutta con successo al Teatro dell’Opera di Roma il 5 giugno 1992. Nelle foto la versione EMI Classic su MC stereo (7547592/94) della collezione dell’autore di questo articolo.

[5] – Lingua accadica (akkadû), era una lingua semitica orientale parlata nell’antica Mesopotamia, in particolare dagli Assiri e dai Babilonesi. L’accadico è la più antica lingua semitica mai attestata, che utilizza i caratteri cuneiformi come sistema di scrittura (utilizzati inizialmente dai Sumeri). La lingua è stata chiamata “accadico” dalla città di Akkad, forse una fondazione di Sargon, maggior centro abitato dell’impero accadico, ancora oggi non rintracciata con certezza.

[6] – Sumerico. I Sumeri sono considerati la prima civiltà urbana assieme a quella dell’antico Egitto e della valle dell’Indo. Si trattava di un’etnia della Mesopotamia meridionale (l’odierno Iraq sud-orientale), che visse in quella regione tra il IV e il III millennio a.C. Preceduta da una scrittura fondamentalmente figurativa, una successiva stilizzazione condusse alla scrittura cuneiforme – che sembra aver preceduto ogni altra forma di scrittura codificata e che comparve attorno alla fine del IV millennio aev.

[7] – Uruk. Antica città dei Sumeri e successivamente dei Babilonesi, situata nella Mesopotamia meridionale, corrispondente all’odierna città araba Warkā. E’ considerata la città più antica della storia (risalente a ca 5.000 anni fa), mentre l’insediamento umano è stato individuato in Palestina (attuale Cisgiordania), nei pressi di Gerico: 11.000 anni.

 

Roma, 17 novembre 2023

 

3 Comments

3 Comments

  1. Sandro Russo

    20 Novembre 2023 at 21:19

    Ho molto apprezzato l’articolo di Tano sul nome delle cose, tanto che alla questione dei nomi ho dedicato alcuni scritti, prima su Omero e poi su Ponzaracconta. Delimitando però il campo ai soli nomi delle piante. Con una premessa generale, però…
    L’articolo comincia così::

    Ho un inveterato interesse per i nomi. La chiamo “fissazione”, ma è un argomento enorme, che investe tutto il processo della conoscenza del mondo.
    Dare un nome alle cose significa farle esistere, dar loro un volto e quindi gettare una luce nuova sul loro essenza. Una vera e propria invenzione fatta una volta per tutte dalla cultura di appartenenza, ma riproposta a ciascuno di noi ad ogni nuovo contatto; nelle nostre brevi vite personali ognuno deve ricominciare da capo e crearsi una cosmogonia di echi e rimandi.
    Nella Bibbia si dice che Dio ha dato all’uomo il compito di dare il nome alle cose che Lui aveva creato. Si riteneva infatti nella tradizione biblica, che toccasse all’uomo esprimere, col nome, la natura e l’essenza stessa della cose designate, che senza uomo non avrebbero avuto significato. Da qui si capisce la grandezza dell’uomo, che ha il ruolo o il compito, non di creare le cose, ma di significarle.
    Bruce Chatwin ne “Le vie dei canti” (Biblioteca Adelphi 198; 1988) narra del dedalo di sentieri invisibili che coprono tutta l’Australia, che gli europei chiamano “Piste del Sogno” o “Vie dei Canti” e gli aborigeni “Orme degli Antenati” o “Vie della Legge”.
    I miti aborigeni della creazione narrano di leggendarie creature totemiche che nel Tempo del Sogno avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – uccelli, animali, piante, rocce, pozzi – e con il loro canto avevano fatto esistere il mondo.
    Riteneva Galileo che i nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza ai nomi; perché prima furono le cose, e poi i nomi. Nominare equivale a dare un ordine, controllare le cose, addomesticarle. È qualcosa che ci conforta: lo sconosciuto diviene familiare, ciò che è sfuggente si trasforma in definito.
    Compito impegnativo… – Che cos’è un nome? – si/ci chiede ShakespeareSenza il nome quella che chiamiamo “rosa” non avrebbe il suo profumo? Quindi il nome è una convenzione.
    D’altra parte un nome sbagliato, sosteneva Camus, contribuisce all’infelicità del mondo.
    “Nomina sunt consequentia rerum” (tradotto dal latino: «I nomi sono conseguenza delle cose»). – si ripete talora per esprimere la convinzione che i nomi rivelino l’essenza o alcune qualità della cosa o della persona denominata, ma è anche usata in tono ironico o scherzoso (riportato così in vocabolario Treccani).
    Ma riconosco di aver allargato troppo il campo e forse spaventato il lettore…

    Ricominciamo.
    Ho un’antica ‘fissazione’ per i nomi in genere e per quelli delle piante in particolare…

    Continua al link sottostante, per chi volesse andare a rileggerlo:
    https://www.ponzaracconta.it/2023/07/07/la-vita-segreta-dei-nomi-delle-piante-prima-parte/

  2. Patrizia Maccotta

    20 Novembre 2023 at 21:44

    Come Tano, anch’io sono stata colpita dalla possibilità di essere ‘amortali’ (Harari è uno storico molto acuto, ironico e particolare nei suoi paradossi, che mi piace molto). Ho pensato ai problemi che ciò farebbe nascere, come lo descrive, con altrettanta ironia, José Saramago nell’opera “Le intermittenze della morte”. Ma, soprattutto, con molta angoscia, ad una Sanità pubblica (già molto demolita) che scomparirebbe del tutto: i ricchi, che potrebbero permettersi la tecnologia riparatrice di ogni guasto: ‘amortali’, e il resto dell’umanità, equiparata a macchine senza importanza, mortale e anche velocemente perché le nascite sarebbero copiose in Africa e altri continenti e anche perché sostituita in parte dall’Intelligenza Artificiale (I.A.), al servizio dei quasi eterni. Spazzando via il sogno della nostra generazione di Uguaglianza, Fraternità e… Libertà! Pfui!

  3. Sandro Russo

    21 Novembre 2023 at 18:06

    Tanto per non passare sotto silenzio cose già scritte, sull’importanza dei nomi, volevo ricordare questa storiella più o meno in chiusura dell’altro articolo dedicato a “La vita segreta dei nome delle piante”. Poi che è interessato può andare a leggere il resto.

    Riferiscono fonti apocrife…
    Il Creatore ha appena risolto – con bello stile, bisogna riconoscere – la questione del nome del fiore, che una vociona, ben più potente ancorché accorata, lo investe:
    – NON TI SCORDAR DI ME!
    – Oh no! …Ancora!
    Stavolta non è un fiore. Ed è anche molto grossa, come dimenticanza! …Un animale enorme, grigio e rugoso, quattro zampone come colonne, una lunga proboscide prensile e due eleganti zanne ricurve in avorio.
    Facile adesso criticare, ma mettetevi un po’ nei panni del Padreterno… È stanco, ha lavorato duro per sei giorni e questo animalone qui ora lo importuna perché ha dimenticato di dargli un nome… Si può capire che Lui gli risponda un po’ brusco:
    Va’, va’..! Le prime parole che sentirai sulla tua strada, quello sarà il tuo nome! …Va’ ora!
    L’animale si guarda intorno perplesso; tutt’intorno a lui c’è solo deserto… D’altra parte non può mica contraddire il Capo!
    Si avvia lungo quella plaga desolata, pensando tra sé e sé:
    – Dice bene, Lui… Qui non c’è anima viva… E intanto cammina cammina, con il suo passo pesante Tumb… tumb…
    – Chi mai potrò trovare, in questo deserto, che mi possa dire una parola – pensa, e va avanti… Tumb… tumb… All’improvviso, in lontananza, intravede un’oasi.
    – Speranza! – pensa l’animale innominato – magari trovo qualcuno e finalmente avrò questo benedetto nome.
    Entra nell’oasi, ma non c’è anima viva.
    Vede ad un tratto l’insegna di un bar.
    – Un bar..!? Che ci fa un bar quaggiù? – pensa, ma si rende conto di avere una gran sete, ed entra – seppure con qualche difficoltà – nel locale.
    C’è una ghiacciaia in un angolo; la apre con la proboscide e comincia a tirarne fuori bottiglie:
    – Coca-cola… coca-cola …Io le odio le coca-cole – pensa.
    Intanto, per l’aspettativa, gli è montata una sete smisurata; continua a scartare bottiglie con apprensione crescente…
    – Coca-cole, coca-cole… pensa; ormai è agitatissimo; tira giù l’intera ghiacciaia estraendo deluso una bottiglia dopo l’altra…
    – Niente… tutte coca-cole – pensa disperato. Tira fuori l’ultima bottiglia, ancora di coca-cola…
    – E LE FANTE? – grida ad alta voce.
    Si sente un rombo, caratteristico della presenza del Divino:
    – HA..!

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