di Sandro Russo
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Ho un inveterato interesse per i nomi. La chiamo “fissazione”, ma è un argomento enorme, che investe tutto il processo della conoscenza del mondo.
Dare un nome alle cose significa farle esistere, dar loro un volto e quindi gettare una luce nuova sul loro essenza. Una vera e propria invenzione fatta una volta per tutte dalla cultura di appartenenza, ma riproposta a ciascuno di noi ad ogni nuovo contatto; nelle nostre bervi vite personali ognuno deve ricominciare da capo e crearsi una cosmogonia di echi e rimandi.
Nella Bibbia si dice che Dio ha dato all’uomo il compito di dare il nome alle cose che Lui aveva creato. Si riteneva infatti nella tradizione biblica, che toccasse all’uomo esprimere, col nome, la natura e l’essenza stessa della cose designate, che senza uomo non avrebbero avuto significato. Da qui si capisce la grandezza dell’uomo, che ha il ruolo o il compito, non di creare le cose, ma di significarle.
Bruce Chatwin ne “Le vie dei canti” (Biblioteca Adelphi 198; 1988) narra del dedalo di sentieri invisibili che coprono tutta l’Australia, che gli europei chiamano “Piste del Sogno” o “Vie dei Canti” e gli aborigeni “Orme degli Antenati” o “Vie della Legge”.
I miti aborigeni della creazione narrano di leggendarie creature totemiche che nel Tempo del Sogno avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – uccelli, animali, piante, rocce, pozzi – e con il loro canto avevano fatto esistere il mondo.
Riteneva Galileo che i nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e non l’essenza ai nomi; perché prima furono le cose, e poi i nomi. Nominare equivale a dare un ordine, controllare le cose, addomesticarle. È qualcosa che ci conforta: lo sconosciuto diviene familiare, ciò che è sfuggente si trasforma in definito.
Compito impegnativo… – Che cos’è un nome? – si/ci chiede Shakespeare – Senza il nome quella che chiamiamo “rosa” non avrebbe il suo profumo? Quindi il nome è una convenzione.
D’altra parte un nome sbagliato, sosteneva Camus, contribuisce all’infelicità del mondo.
“Nomina sunt consequentia rerum” (lat. «I nomi sono conseguenza delle cose») (1). – si ripete talora per esprimere la convinzione che i nomi rivelino l’essenza o alcune qualità della cosa o della persona denominata, ma è anche usata in tono ironico o scherzoso (riportato così in vocabolario Treccani).
Ma riconosco di aver allargato troppo il campo e forse spaventato il lettore…
Ricominciamo.
Ho un’antica ‘fissazione’ per i nomi in genere e per quelli delle piante in particolare.
Eravamo arrivati al punto che “nomina sunt consequentia rerum”… ma può essere vero anche il contrario… Come quando capita di conoscere una persona e di attribuire ad essa, nella propria mente, un nome diverso da quello che realmente ha. Non so se è un problema comune, ma ad alcune persone il nome che hanno proprio non si attaglia. Molto meglio quello di fantasia; con qualche problema, a volte, perché per tirar fuori il nome bisogna innescare un procedimento complesso, dalla fantasia alla realtà… E spesso non si è abbastanza pronti; si perde un tempuscolo… C’è quella temporanea afasia, o ‘sfasamento’, che fa riconoscere quelli ‘con la testa tra le nuvole’…
Ma si può anche dare il problema inverso. Si sente ‘Ariel’ o ‘Jasmine’ – o anche ‘Nora’, ‘Lorelei’, ‘Zaira’ – e si evoca un mondo magico, cui non sempre la realtà tiene dietro.
Nel regno vegetale sono tanti i nomi ‘belli’, o che si impongono all’attenzione. Per i motivi più disparati: per il suono che fanno a pronunciarli, per l’etimologia, per il nome popolare e le leggende che sottendono, per un’eco del tutto personale che suscitano tra i ricordi…
Il quando-come-perché dei nomi delle piante è un approccio originale a un mondo sconosciuto e una conoscenza irrinunciabile per stimoli e associazioni.
Tanti ne potremmo ricordare… Da incantare il nostro Gadda ingegner Carlo Emilio, alias ‘Gonzalo Pirobutirro’ de La cognizione del dolore (romanzo scritto tra 1939-1941), rimasto incompiuto; mia copia: Garzanti 1999). La derivazione è da una varietà di pero dalla polpa burrosa). Ma il primo tra tutti, converrebbe studiare a fondo quell’opera grandiosa di sistematizzazione del mondo delle piante, di quella singolare figura tra lo scienziato e il poeta che fu Linneo…
Mi porto avanti col lavoro con un po’ di esempi sparsi: significatio est consequentia rerum…
Salsapariglia o Smilax aspera (Fam. Liliaceae). In Italia è nota anche col nome comune di stracciabraghe, per via delle foglie dai margini spinosi; è una comune selvatica rampicante, con fiori profumati e grappoli di bacche rosse in autunno. Chissà per quali vie la salsapariglia è arrivata ad essere il cibo prediletto dei puffi… Siamo dalle parti della ‘naftalina’ di Eta-beta!
Il nome botanico della pianta (smilax aspera) deriva dal greco ‘smilé’, raschietto e dal latino ‘asper’, scabro, in riferimento alla forma e alla spinosità delle foglie; ma più noto è il suo nome comune, di derivazione spagnola ‘zalzaparilla’ o ‘sarzaparilla’, per l’abbondante schiuma saponosa che la pianta produce quando è sfregata vigorosamente in acqua, simile alla schiuma (salsa) di una coppia di cavalli (parilla) affaticati.
A volte le piante – una loro rappresentazione mentale, un profumo – innescano un processo evocativo nella memoria, come in questo racconto di Ray Bradbury: ‘Profumo di salsapariglia’!
“Cora – disse lui mangiando, rilassandosi, cominciando a entusiasmarsi di nuovo – sai cosa sono le soffitte? Sono Macchine del Tempo, nelle quali vecchi uomini tristi come me possono tornare indietro di quarant’anni, a un tempo che era estate tutto l’anno e i bambini davano l’assalto ai carretti del ghiaccio. Ricordi che gusto aveva? Mettevi il ghiaccio nel fazzoletto, ed era come succhiare il sapore della tela e della neve nello stesso tempo” (…)
(…) “Non ritornò vicino alla finestra. Sedette, sola, nella soffitta nera, odorando il solo odore che non sembrava svanire. Trasse un profondo respiro. Il vecchio, familiare, indimenticabile odore della salsapariglia del drugstore.”
[Ray Bradbury (1953): ‘A scent of sarsaparilla’; short novel dall’antologia “A medicine for melancholy”; SFBC – Science Fiction Book Club, 1963]
Da sin. Thunbergia alata (Fam. Acanthaceae); la più famosa ‘Susanna dall’occhio nero’ – Black-eyed Susan; a fianco Rudbeckia hirta (Fam. Asteraceae) e Hibiscus trionum (Fam. Malvaceae), anch’esse denominate popolarmente ‘Black-eyed Susan’. L’occhio nero si capisce… Ma cosa avrà mai combinato, Susan, per essere conciata così?
Le piante d’oro e le piante del sole. Nell’immaginario dei popoli sono sempre state molto rimarcate le analogie e le metafore tra il mondo delle piante e altri elementi naturali o metafisici. Nell’immagine di sopra na quadripletta di piante in vario modo legate al colore dorato dei fiori e alla caratteristica di seguire il corso del sole durante il giorno. Da sinistra e dall’alto: Crysanthemum coronarium (Fam. Asteraceae), Helichrysum italicum (Fam. Asteraceae ), Heliotropium spp. (Fam. Boraginaceae) e il comune girasole, Helianthus annuus (Fam. Asteraceae):
– Chrysanthemum, dal greco ‘khrysós’, oro e ‘anhtos’, fiore: ‘fiore d’oro’, per il colore dei fiori nelle sue varietà native; ora i colori degli ibridi sono infiniti.
– Helichrysum, dal nome composto da ‘hélios’, sole e ‘khrysós’, oro. Pianta ponzese molto conosciuta, dal profumo molto particolare (chi dice che sa di curry, chi dice di liquirizia: esattamente profuma di elicriso!
– Heliotropium, da ‘helios’ e ‘tropein’, girare, per il fatto che la pianta tende ad orientare le sue foglie costantemente verso il sole; l’antico nome inglese della pianta, ‘turnsole’, ha la stessa origine.
– Helianthum infine, il nostro girasole: ‘sunflower’ in inglese.
Tabebuia chrysantha (Fam. Bignoniacee) in lingua locale ‘araguaney’ o ‘corteza amarilla’, ha l’oro anche nel nome e davvero non c’è bisogno di spiegare perché.
Piante solatìe per eccellenza i papaveri: il loro colore rosso è in modo quasi automatico associato al sole, all’estate, alle distese dorate di grano maturo. Ma l’etimologia del nome latino ‘papaver somniferum’ si riferisce alle sue proprietà medicamentose: dal sanscrito papavira o papavara che significa ‘succo pernicioso’.
Più allegra la etimologia del nome francese, che è scoppiettante di suo: ‘coquelicot’..! (v. avanti).
Il papavero o ‘rosolaccio’ (Papaver rhoeas) comune infestante dei campi, appartiene alla stessa famiglia (Papaveraceae) del papaver somniferum, da cui si estrae l’oppio.
Claude Monet: ‘Les coquelicots’ (1873) [Parigi, Musée d’Orsay]. Il nome francese deriva da ‘coquelicoq’, onomatopea che si riferiva inizialmente al gallo ‘coq’ e poi – per analogia con il colore della cresta dell’animale – si è trasferita al fiore.
Rosmarinus officinalis – Fam. Labiatae. Il nome rosmarino viene da ros maris (dal latino ros-roris: rugiada): rugiada del mare
Sole e vita opposti a tenebra e morte, con il bel nome ‘asfodelo’, ad indicare una pianta che come la fenice risorge dalle sue ceneri.
Asfodelo (Aspholelus spp. – Fam. Asphodelaceae, già Liliaceae). Il nome, di derivazione greca, è un collage di più parole; deriva da ‘a’ (privativo), non, ‘spòdos’, cenere e ‘èlos’: valle, per indicare che la pianta non viene ridotta in cenere nelle valli dove si verificano incendi. Per la sua capacità di risorgere dopo le fiamme, nella mitologia greca l’asfodelo era considerato il fiore del regno dei morti.
(1) – Frase nota per la citazione che ne fa Dante (Vita Nuova XIII, 4: con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose, sì come è scritto: «Nomina sunt consequentia rerum»), e la cui origine è in un passo delle Istituzioni di Giustiniano, II, 7, 3 (nos … consequentia nomina rebus esse studentes … «noi… cercando di far sì che i nomi corrispondano alle cose…»).
[La vita segreta dei nomi delle piante (1) – Continua qui (la seconda puntata, conclusiva, già domani)]