Canzoni

Una canzone per la domenica (268). Oltre l’indicibile: Sidùn, di Fabrizio De André

di Carlo Antonio Secondino

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Per una volta l’ispirazione per la canzone della domenica, viene da un suggerimento esterno. Nel suo encomiabile proposito di proporre in termini piani e accessibili questa ulteriore (e pericolosissima) guerra che sta angosciando il mondo – sull’orlo dell’abisso, dice Giannini in un suo articolo (leggi qui) – il sito ha proposto la nota giornaliera di Michele Serra (leggi qui, in Commenti) che scrivendo degli orrori della guerra suggerisce: “Riascoltate, vi prego, Sidùn di Fabrizio De André e Mauro Pagani. Scritta per un bambino di Sabra e Chatila, suona identica, quarant’anni dopo, per un bambino dei kibbutz massacrato dai miliziani di Hamas. E identica significa identica: uguale nella descrizione del male, del dolore degli inermi, dell’indifferenza degli assassini”.


Ho letteralmente applicato il suo consiglio, perché come tanti ho ascoltato qual capolavoro che è l’intero album ‘Crêuza de mä’  – sul sito leggi qui -, ma confesso, non avevo approfondito il significato delle parole, in stretto dialetto genovese.
L’ho fatto adesso e lo propongo – tradotto e elaborato -, agli estimatori della Canzone per la Domenica… con qualche considerazione umanistico/letteraria.

Trattare i grandi temi, le grandi tragedie, la morte stessa, con le parole e con le immagini – mi riferisco in particolare alla Letteratura e al Cinema – è particolarmente arduo, per certi versi “offensivo” data la maestà della materia e il rispetto ad essa dovuto. È uno dei temi trattati nel sito – perfino in una Canzone per la Domenica -, in cui, pur da recente adepto, non ho mai visto immagini di morte.

È sicuramente una censura importante con cui si confrontano gli artisti: scrittori e poeti grandi e piccoli, e molti cineasti (1).
Tra le poesie “in togliere” c’è quella di un grande: “Uomo del mio tempo”, di Salvatore Quasimodo (2).
So di cosa parlo. Ho avuto ben presente il problema del linguaggio nei miei tentativi di poesia; so quanto bisogna distillare le emozioni e i ricordi (quelli sì sanguinosi) per poterli trasporre in parole. Questo è il risultato, in una mia poesia recente (3).

Ma i versi della canzone di Fabrizio, tradotti dal dialetto, hanno la levità di un canto d’amore pure dentro l’orrore più cupo, e l’intera canzone ha il fascino addirittura di una ninna nanna.

Testi appaiati (cliccare per ingrandire)

Sidun

Il mio bambino il mio
il mio
labbra grasse al sole
di miele di miele

Tumore dolce benigno
di tua madre
spremuto nell’afa umida
dell’estate dell’estate

E ora grumo di sangue orecchie
e denti di latte
e gli occhi dei soldati cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli

A inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia
e dopo il ferro in gola i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione

Perché di nostro dalla pianura al molo
non possa più crescere albero né spiga né figlio
ciao bambino mio l’eredità
è nascosta

In questa città
che brucia che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte

Da YouTube, dal vivo, ricavato dalle registrazioni degli spettacoli tenuti il 13 e il 14 febbraio 1998 presso il Teatro Brancaccio di Roma.

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YouTube player

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Note

(1) – Nel cinema il rischio di compiacimento per immagini particolarmente crude o truculente e risolto i  due modi opposti, molti registi vi sono attentissimi, altri si situano all’estremo opposto, nei sottogeneri Horror e Gothic. In mezzo c’è il cinema di Quentin Tarantino.

(2) – Uomo del mio tempo è una poesia di Salvatore Quasimodo, ultima lirica della raccolta Giorno dopo giorno (1946).

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
e loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

 (3) – Dalla raccolta di poesie “L’occasione di esistere” (2023) di Carlo Antonio Secondino

L’occasione di esistere

Erompe l’odio da maschere logore
e si espande, i cieli fa oscuri.
Incalza falangi immemori alla meta:
beverare la barbarie,
che di ogni civiltà segnò il destino.

Chiuso in orizzonti di sangue
dispero serbare l’animo immutato:
sempre fu tenue membrana che vibra;
esile foglia che percossa dal vento
resiste;
sottile lastra di vetro
che i palpiti specchia, le dissonanze,
le armonie del mondo,
e s’incrina
dinanzi ad attori di sterminio;
a bocche deformi nell’ultimo grido.

E mentre rovino in tormentosa china
già si figura, la mente,
come la membrana più non sussulti
e rinsecchisca a terra la foglia;

come spenta giaccia
la fragile lastra, se a difendere l’io
abitudine
di opaca indifferenza lo ricopra.
Non trovo,
se non dentro impalpabili trasparenze,
l’occasione di esistere.

(4) – Sidun tratta, come raccontato da De André in un’intervista, del bombardamento della città libanese di Sidone, sede di violenti scontri e tragici massacri tra israeliani e siriani. All’inizio della canzone si possono sentire infatti le voci di Ronald Reagan e Ariel Sharon.
Sidone è la città libanese che ci ha regalato oltre all’uso delle lettere dell’alfabeto anche l’invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l’attacco subito dalle truppe del generale Sharon del 1982, come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato. Un grumo di sangue, orecchie e denti di latte, ancora poco prima labbra grosse al sole, tumore dolce e benigno di sua madre, forse sua unica e insostenibile ricchezza. La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea (Da: https://www.fabiosroom.eu/it/autori/fabrizio-de-andre/ ).

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