Libri

Gabriella Nardacci, presentazione del nuovo libro a Roma

a cura della Redazione

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Venerdì 1° marzo 2024, h. 17.30
presso la Libreria – Caffè letterario Mangiaparole
Via Manlio Capitolino 7/9 – Metro Furio Camillo – Roma

Presentazione del libro:

Un vestito per la vita e per la morte
di Gabriella Nardacci

Dialoga con l’autrice
la giornalista Giulia Laruffa


Dalla seconda di copertina del libro

La storia si svolge nell’ambiente ristretto di un borgo rurale dell’Italia centrale negli anni che vanno dal 1930 al 1946: anni che vedono povertà, fame, fatica, ma anche la speranza di ricominciare dopo i disastri della guerra. Sono anni pesanti che, comunque, non hanno la forza di uccidere i sogni del protagonista del romanzo, Saturnino: un semplice carbonaio dedito al lavoro in montagna, ma fiero di essere e di mostrarsi per quello che è.
Saturnino è lo scandalo del paese perché – noncurante dei pregiudizi e dei pettegolezzi – ama profondamente, profondamente ricambiato, due donne: la moglie Ada e l’altra, Agnese, figlia di Irma, considerate entrambe delle poco di buono.
Nelle vicende di Saturnino e delle sue due donne, i veri protagonisti sono i sentimenti che parlano, si confessano, urlano e si raccontano al lettore attraverso paure, misteri e maldicenze che colorano le pagine dipingendo scene di crudo neorealismo.
Altri sentimenti, come quello della libertà di amare e di vivere la propria vita oltre le maldicenze e l’ostracismo, si percepiscono soltanto perché impossibili da spiegare nell’ambiente chiuso e ristretto in cui è immerso Saturnino.
E infatti è soltanto in un’altra dimensione, cambiando luoghi e contesti, che a trionfare sarà l’amore a prescindere dalle convenzioni sociali e dai (pre)giudizi degli altri.

 

Presentazione
di Giulia Laruffa

Se questo romanzo fosse una canzone riconosceremmo all’istante le note di Bocca di Rosa. Se la canzone di De André fosse un lungo racconto si potrebbe chiamare Un vestito per la vita e per la morte. La lucidità della penna di Gabriella Nardacci e la rassegnazione dello sguardo di Fabrizio De André raccontano la stessa spietatezza e lo stesso pregiudizi del paesino nei confronti del diverso e del possibile. Una storia vecchia come il mondo insomma che si ripete dalla notte dei tempi ancora e ancora, dovunque e sempre.
Oggetto di odio e di proiezioni d’invidia funesta sono quasi sempre le donne, poco importa se la strana di turno faccia la speziale-curatrice-strega come le protagoniste del libro o “l’amante per passione” come la donna dipinta dalle parole del cantautore genovese. Su Agnese, l’eroina sfortunata che ci presenta Gabriella, si scagliano le stesse “ire funeste” che piombano addosso alla Bocca di rosa di De André. Ma in questo romanzo, la gelosia e la maldicenza si spingono ben oltre la soglia del razzismo e dell’ostracismo. Le due donne vengono letteralmente perseguitate, vessate, escluse e giudicate pesantemente giorno dopo giorno, sguardo dopo sguardo, fino ad arrivare al limite cui un essere umano può spingersi.

Ciò che colpisce di più del romanzo è l’indagine dell’autrice sulla naturalezza con la quale si rivelano l’oscurità e la cattiveria sepolte nelle pieghe del cuore delle persone. Una riflessione urgente in un tempo in cui la violenza e l’odio si danno per scontate. Ogni lettore onesto non può fare a meno di porsi delle domande e di rintracciare dentro se stesso tutte le volte in cui le piccolezze e le meschinità governano le azioni della vita di ogni giorno, arrecando danni gratuiti al mondo intero. Si prende coscienza del fatto che il paesino è qualcosa che ognuno di noi ha avuto dentro, almeno una volta nella vita; il paesino nel romanzo è come una sorta di prigione dalla quale ognuno di noi è chiamalo a emanciparsi, che agli uomini e alle donne di guardare oltre e, come ci insegna Saturnino, il protagonista del romanzo, di essere felici. Inoltre, a differenza di Bocca di rosa, Irma e Agnese sono due che fanno del bene a tutti, con devozione e umiltà si prendono cura delle persone, ma il fatto che due donne vivano sole, svolgano con successo il proprio lavoro senza un uomo accanto, siano indipendenti economicamente e spiritualmente dal concetto di famiglia tradizionale, rende inaccettabile il gioco dello specchio per tutte le altre donne che sono incastrate in matrimoni e relazioni infelici, false, piene di non detti, bugie, frustrazioni e ambiguità. E allora queste due bisogna farle diventare due mostri, inventando ragioni improbabili per sostenere quest’ostilità e quest’odio. Perché Agnese e Irma sono de facto due archetipi inconsci, ingestibili per tutti.

Gli uomini, dal canto loro, rimangono prigionieri della dicotomia attrazione-repulsione nei confronti delle due estranee, preferiscono unirsi all’odio delle loro mogli per comodità o, nella peggiore delle ipotesi, non prendere affatto posizione e lasciare agli altri la responsabilità di agire.
Tutti gli uomini tranne uno, Saturnino, che non riesce a rinunciare completamente a questa finestra aperta sul suo cuore, alla possibilità di guardare oltre la mentalità comune dei suoi compaesani. Per tutto il tempo del racconto sarà lui a “portare in giro per il paese a spasso l’amore sacro e l’amor profano”. È come se Irma e Agnese rappresentassero per tutti gli altri personaggi del romanzo l’eterno conflitto tra dovere e piacere, tra tradizione e innovazione, originale e scontato; sono la possibilità di aprire una prospettiva ristretta e monotona delle cose.

Le due mettono in discussione gli equilibri precari e le esigenze di una società contadina che, minacciata dalla guerra e dal mondo che inevitabilmente sta cambiando, sposta l’azione su un nemico immaginario perché incapace di guardare quello reale molto più minaccioso e troppo spaventoso per essere osservato da vicino. E così, la lente distorta dell’invidia fa diventare una giovanissima ragazza innamorata  e alle prime armi con la gestione dei propri desideri e una madre amorevole e comprensiva, due Salomè mangia-uomini, senza scrupoli e senza pudore.
Ma arriva un momento in cui l’autrice offre la possibilità a tutti di riscattarsi. Infatti, solo quando la nube nera della guerra si farà così grande da rendere impossibile il non vedere la realtà, gli uomini e le donne del paesino riscatteranno la loro ignavia mettendo in moto quella che Leopardi chiamava la social catena della solidarietà, ricostruiranno le loro case e se stessi aiutandosi e sostenendosi, tornando insomma, a essere umani. E così, dopo aver conosciuto la realtà e la prospettiva più ampia delle cose, il paese potrà trasformarsi da carcere asfissiante a luogo dove è bello tornare, vivere e condividere.

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