De Luca Francesco (Franco)

 ‘A primma luna monta

di Francesco De Luca

 

Aniello Aprea, l’ingegnere, mi sollecita perché vuol venire a capo del suo ricordo di cui, come ho scritto qualche giorno fa, lui ha perso la dizione popolare.

Allora, con pazienza, ho riletto la copia del mensile Vivere Ponza – Anno II – N° 3 – 1986, dove è riportata l’intera tiritera legata al gioco ‘a primma luna monta. La scrissi con l’aiuto di Tommasino De Luca, ora volato in cielo ma presente nel nostro cuore.

Il gioco ormai è sconosciuto dai ragazzi ponzesi. Lo descrivo brevemente. Un ragazzo stava  ‘sotto’. Era piegato in modo da offrire di piatto il corpo ai compagni, i quali lo dovevano scavalcare ad uno ad uno. Sulla rena, si prendeva la rincorsa, con un salto a gambe aperte, si scavalcava il compagno, si ricadeva sulla sabbia. Nel saltare bisognava dire una frase e rispettare il comando di quanto veniva profferito. Ogni mancanza faceva sì che andasse  ‘sotto’  l’inadempiente.

L’inizio era questo: ‘a primma luna monta se ne venesse… ( e si pronunciava il nome di chi doveva seguire );

due buchi   ( e nel ricadere a terra si faceva l’atto di scavare un buco );
tre righi;
quattro spazi;
cinque renati   ( e nel saltare si doveva colpire col piede il sedere di chi stava sotto );
sei morti incrociati   ( e si doveva cadere coi piedi incrociati );
sette statue   ( si cadeva a terra e si rimaneva immobili fino a che l’ultimo non fosse saltato );
otto porci ind’ a rotta ‘i Minicucce;
nove margherite    ( si doveva saltare  senza appoggiare le mani sul dorso );
dieci pugni   ( si saltava appoggiandosi coi pugni );
undici e primo   ( si rimaneva a terra immobili fino a quando il primo non contava, una volta saltati tutti: uno  due  tre );
dodici e l’ultimo   ( era l’ultimo stavolta a contare : uno  due  tre );
tredici voli   ( una volta a terra si muovevano le braccia come a volare );
quattordici, quando torno te lo metto;
quindici e te l’ho messo  ( nel saltare bisognava deporre sul dorso di chi era sotto un fazzoletto );
sedici, quando torno me lo prendo;
diciassette, me l’ho preso  ( e si prendeva quanto era stato deposto );
diciotto, cric croc mangiamancine scassacandero e ‘u cecato    ( nel saltare ci si tirava l’orecchio e si dava un calcetto a chi stava ‘sotto’ );
diciannove, aret’a piazza: chiappe  chiappino  e matarazze;
vinte, scavate  ‘u fuosso e minate ‘a dinto:
vintuno: schizza  ‘u niervo e te va  ‘nculo, a me ind’ a coscia a te ind’ u culo: meglio a te c’a uno  ‘i nuie.
vintiduie: si’ pitto e faie ammore;
vinditre: evviva  ‘u Rre.

Un gioco estivo, svolto sulla spiaggia e a piedi nudi.
Un gioco che aveva la sua difficoltà nel salto, nella caduta, insomma nelle capacità fisiche.

La tiritera è, come al solito, frammista di elementi reali ( Minicuccio, il re ), di allusioni sessuali ( te lo metto, te l’ho messo, schizza  ‘u niervo  ), di elementi surreali e linguisticamente appetibili ( chiappe  chiappino  matarazze ). Un misto che si fa ricordare. D’altronde era una tiritera che nella replicazione orale trovava il fascino.
Un espediente infantile per ritrovarsi, mettersi insieme e giocare. Nel gioco il divertimento ma anche il manifestarsi del carattere, delle abilità, e, insomma, della natura dei singoli concorrenti e della loro socialità.

Spero che Aniello ritrovi frammenti della sua fanciullezza. Non riuscirà a rivederli espressi presso i ragazzi di Calacaparra. Altro clima, altro mondo.

Eppure… ogni sera, ad una certa ora, la luna monta. Oggi come ieri. Sempre la stessa.

 

Di seguito la canzone scritta sulla tiritera. Testo e voce di Francesco De Luca, musica ed esecuzione di Nino Picicco

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