Usi e Costumi

Agricoltura ponzese

riceviamo da Guido Del Gizzo e pubblichiamo

 

Gentile Redazione,

in attesa di commentare le notizie comparse sulla stampa successivamente al convegno dei Giovani Industriali, sulle quali conto di intervenire a breve, trovo suggestivo e interessante l’intervento di Pasquale Scarpati (leggi qui), al quale, se permettete, vorrei offrire un contributo, per quanto concerne “la campagna”, come lui la definisce.

Per essere certo di non seguire le orme paterne e, soprattutto di non vivere in città, negli anni ’70 mi sono iscritto alla facoltà di Scienze Agrarie di Perugia, dove mi sono laureato nell’82.
In questi quarant’anni non mi sono occupato molto di agricoltura, ma un po’ sì e per questo, arrivato a Ponza tre anni fa, non ho potuto fare a meno di osservare i terrazzamenti diffusi su tutta l’isola e mi sono documentato.

 

Oltre ai molti interventi pubblicati sul vostro sito, mi sono imbattuto nei dati ARSIAL – agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione agricola – dai quali risulta che nel 1910 erano censiti “oltre 300 ha a vigneto”, pari, se il dato è reale, a circa il 30% della superficie dell’isola.

E’ evidente che stiamo parlando di un tempo di fame e miseria, per il quale non si può avere nessuna nostalgia.
Però, – sarei felice di essere smentito – ho l’impressione che, ad oggi, non si arrivi a 10 ha di terreno coltivato sull’isola, vigneti compresi: e anche se si trattasse del doppio, il dato non cambierebbe.
L’isola ha cancellato, di fatto, l’attività agricola e questo risulta dal modo in cui il verde, nel suo complesso, viene “gestito”, a cominciare dai fichi d’india che affiorano, impolverati, ovunque tra i muretti a secco, appena si esce dalle vie del centro abitato.
La prima volta che sono sbarcato sull’isola in primavera, tre anni fa, rimasi inebriato dal profumo delle ginestre: non sono riuscito a trovare un vasetto di miele di ginestra, né sull’isola, né sul web… questo ha un senso?

 

La cosa paradossale è che ogni attività di produzione locale sembra essere stata abbandonata proprio nel momento storico in cui avrebbe più successo, data la pressione turistica sull’isola… di nuovo, questo ha un senso?
Temo di sì e ne deriva un’analisi impietosa.

Ognuno di noi, e così i popoli, si porta appresso la cultura di ciò che è, cioè di ciò che fa per vivere.
Siamo religiosi o predoni, letterati, minatori, nomadi, marinai o montanari.

Ponza sembra voler vivere solo di turismo, ma il turismo, intanto, è cambiato.
Ciò che conta in maniera determinante, oramai, non è più l’oggetto del viaggio: quello lo guardiamo distrattamente, scorrendo immagini digitali, così come siamo ossessionati dal fissarlo in immagini digitali, anziché nella nostra anima.
Ciò che importa davvero è la modalità di fruizione, che vogliamo più simile possibile alle comodità del nostro quotidiano: è la condizione indispensabile per vendere pacchetti vacanza, a chi non si sarebbe mai sognato di spostarsi da casa sua.
Come quella pubblicità dei viaggi in crociera, in cui si vede una giovane coppia, che si sveglia in quella che sembra una comoda camera d’albergo, ma poi apre la porta finestra del balcone e fuori c’è Santorini, con le casette bianche e blu.

Le grandi navi non sono fatte per trasportare passeggeri o merci: servono a trasportare un modo di vivere al quale non intendiamo rinunciare, come “il più grande traghetto del mondo”, che anche il sindaco ha celebrato sul sito del comune qualche settimana fa, mi pare in modo almeno acritico.

La massima elaborazione teorico-amministrativa cui è dato di assistere sono gli “eventi di promozione territoriale”, come se Ponza avesse bisogno di essere promossa.

Scriveva Gin Racheli, nel suo bellissimo “Le Isole Ponziane, rose dei venti”, nel 1987, per l’editore Mursia:
“un fatto che colpisce l’osservatore… è il traffico convulso che ruota d’estate intorno all’affitto di gommoni e barche, e poi le corse vorticose di questi intorno all’isola, nelle cale e calette, mescolati, come moscerini alle mosche, a panfili, “ferri da stiro”, barche a vela.

Centinaia e centinaia di imbarcazioni con migliaia di esseri a bordo che mangiano, dormono, si spalmano di creme, si crogiolano nudi con il pensiero fisso dell’abbronzatura, fanno bagni solo per rinfrescarsi e abbronzarsi meglio, scattano infinite fotografie…”

“…alla sera si  ritrovano stipati nel delizioso e angusto spazio del paese, tutti azzimati dopo aver fatto migliaia di docce con l’acqua di cui l’isola non dispone, la quale si riversa insieme ai loro rifiuti organici nelle fogne che non ci sono; e si bevono aperitivi, si cena con prodotti che l’isola non produce…

A parte l’impianto fognario, poco è cambiato negli ultimi trent’anni.

L’identità, la cultura dell’isola oggi sono questo: tutto il resto, la natura bellissima, l’archeologia, i ponzesi nel mediterraneo, lo stesso S. Silverio, fanno parte di una narrazione che non riguarda più il modo di vivere dei Ponzesi, che hanno accettato di diventare l’estensione delle aree commerciali di Roma.

Ponza, come moltissimi altri posti in Italia, è diventata solo una quinta teatrale.

Le terrazze coltivabili sono ancora lì, inerbite, abbandonate ma resistono.
Sono il più importante presidio di stabilità geomorfologica dell’isola, andrebbero curate come giardini: perché non succede, proprio nel momento in cui tutte le istituzioni, a parole, dichiarano la prevenzione del dissesto idrogeologico come una delle nostre priorità?

Perché rappresentano, per chi dovrebbe metterci mano, una vita e una cultura rifiutate.

Perché i ponzesi di oggi hanno scelto un’altra direzione, come la maggior parte dei maremmani o degli elbani: la cultura e i ricordi della nostra infanzia, cui siamo affezionati, non interessano più a nessuno e non serviranno: nel senso letterale che non saranno uno strumento di cambiamento.

Ma, al contrario dell’epicrisi odierna di Sandro Russo (leggi qui), io resto molto ottimista.

Le nuove generazioni sono costrette a confrontarsi con una realtà che produrrà nuove culture e nuove colture, legate al tema ambientale e a quello dell’integrazione, che sarà il quotidiano dei prossimi decenni, malgrado i blocchi navali, i muri  e i “centri” di varia natura sparsi per l’Italia.

E arriverà una nuova generazione di isolani – e di cittadini – consapevoli, forse i figli di quelli che hanno lasciato l’isola negli ultimi decenni, forse nuovi “ponzesi per scelta”, che sceglieranno appunto altre colture, perché c’è il cambiamento climatico e probabilmente altre cultivar: perché intestardirsi sul Biancolella, una tipicità rifiutata?

Altri vitigni e altri prodotti, più adatti all’aridocoltura e, magari, il ritorno dell’olivo e del fico, il moscato di Alessandria o l’Aleatico, l’allevamento razionale del fico d’India e le api… chi lo sa?

Ma mi piacerebbe esserci, anche se Vigorelli, con cui spero di continuare la polemica in altra sede, non è d’accordo…

Cordialmente
Guido del Gizzo

 

 

 

 

4 Comments

4 Comments

  1. Biagio Vitiello

    18 Giugno 2023 at 21:28

    Il sig. Del Gizzo (anche se ha studiato agraria) della attuale agricoltura ponzese non è affatto informato: a Ponza ci sono tre aziende vinicole molto conosciute, ci sono piccoli agricoltori che si impegnano a coltivare la terra e a mantenere i muretti a secco, senza aver preso un euro di contributi. Poi non è vero che a Ponza non si produce il miele, e non è vero che i prodotti agricoli locali non vengono serviti nei ristoranti o negozi (certamente non tutti i negozi o ristoranti offrono prodotti locali).
    Comunque, per dare un impulso alla agricoltura delle piccole isole, bisogna che si faccia una legge ad hoc, almeno regionale, legge che nessun governo o amministrazione ha fatto fino ad ora.

    P.S. – Ci sono a Ponza, diverse persone che hanno la partita IVA agricola, con iscrizione alla Camera di Commercio e altre autorizzazioni

  2. Guido Del Gizzo

    19 Giugno 2023 at 21:13

    Con infinita e sincera stima nei confronti dei protagonisti – non per niente è definita ”viticoltura eroica”-, stiamo parlando di 3,5 ha per le Cantine Migliaccio, 2 per il Casale del Giglio e un altro paio di produttori, di cui ho dimenticato il nome, non me ne vogliano, che coltivano circa un ettaro ciascuno.
    Non ho scovato altro, ma non sono bravo sul web: c’è dell’altro, ettari di ortaggi, frutta, altri vigneti, tale da modificare in modo sostanziale il quadro della situazione?
    Non mi pare.
    Quanto ai finanziamenti e alle disposizioni legislative a favore dell’agricoltura eroica e delle piccole isole, esistono da decenni.
    Il primo passo per risolvere un problema è chiarirne gli elementi.
    La prima responsabilità dello sviluppo locale è sulle spalle degli amministratori locali, non c’entra il destino cinico e baro….

  3. Biagio Vitiello

    20 Giugno 2023 at 10:56

    Caro Del Gizzo, forse le manca qualche pezzo del territorio e delle attività dei ponzesi. Ebbene sono pronto a farle conoscere “l’agricoltura ponzese” di cui lei ignora l’esistenza.

  4. Guido Del Gizzo

    20 Giugno 2023 at 15:52

    Caro Vitiello,
    Accetto con piacere: non mancherò di informarla con congruo anticipo della mia prossima trasferta sull’isola e sarà un piacere conoscerla.
    Abbiamo sempre pensato, e spesso dichiarato, che parte degli utili derivanti dal porto avrebbero dovuto essere reinvestiti sull’isola e, specificamente, nelle attività agricole, cercando alleanze e collaborazioni per progetti comuni, ove possibile: ma questo, grazie all’attuale amministrazione, per ora rimarrà nel libro dei buoni propositi…
    A presto

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