Ambiente e Natura

La nostalgia, il ricordo… e la storia

di Pasquale Scarpati

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Nostalgia, ricordo, storia. Spesso questi tre “concetti” si amalgamano tra loro; ma, a mio parere, qualche volta vanno scissi.
L’idea mi è venuta parlando con due persone più avanti negli anni di me: una ha 88 anni ed un’altra di anni ne ha 90. Ambedue arzilli. Abbiamo convenuto che il progresso della medicina e soprattutto il miglioramento del tenore di vita hanno fatto sì che alla loro “veneranda” e mia età siamo ancora ritti quasi come fusi mentre fino alla prima metà del secolo scorso ed ancora prima, già a 60 anni si era “viecchie arruzzuti”: quasi o del tutto decrepiti. Infatti, durante il “festino” di nozze, si soleva prendere in giro il padre dello sposo (che non era poi tanto vecchio: tra la quarantina e la cinquantina d’anni, ma già a quell’età considerato… decrepito) dicendo: – Quann’ ’u figlie fotte, ’u patre è… futtùt’ -. Come dire: “Oramai non servi più a niente!”
A causa dell’età il loro ricordo, ovviamente, era più limpido del mio. Parlo di ricordo non di nostalgia.

Sul sito spesso mi imbatto nella parola nostalgia. Così tutti quelli che in un modo o in un altro rievocano il passato, vengono incasellati/catalogati tra i “nostalgici”; anche il sottoscritto, quando ricorda e cerca di de-scrivere i suoi trascorsi nell’Isola da fanciullo e adolescente.
Perciò io non posso non fare una distinzione tra nostalgia, ricordo e, giacché mi trovo, accenno anche a un po’ di…storia.

La nostalgia, a mio avviso, implica un voler ritornare al passato possibilmente così com’era.
A parte che ciò non è possibile, se anche fosse possibile sarebbe una iattura per vari motivi.
Dal punto di vista fisico/corporeo si ritornerebbe alle indicibili sofferenze di una volta, a causa della medicina “rudimentale” rispetto a quella odierna; alla penuria di denaro che priva di ogni mezzo ed anche di alcuni piaceri, alle “scomodità” della vita, alla poca igiene.
Dal punto di vista ambientale è vero che ci sarebbe una Natura più intatta e rigogliosa ma non il suo rispetto (visto lo scempio che se ne faceva, come fecero i nostri padri quando misero piede nell’Isola). Ci sarebbero più polvere e più insetti ed ogni genere di putridume, liquame ed altro che scivolava, a cielo aperto anche lungo le strade. Cose che oggi quasi non esistono più.
Dal punto di vista della mentalità (che si abbraccia fortemente a ciò che si è detto prima, formando un “ unicum”) essa era piuttosto “arcigna” (per usare un eufemismo) nei confronti dei piccoli ed anche tra gli adulti (era “normale”, ad esempio,  da parte  dell’uomo far sentire la mano pesante sulla “sua” donna. Lei d’altronde fin da piccola era educata alla “sottomissione” e ciò era anche codificato, anche se tra le righe, nel momento del matrimonio); per non dire della violenza nei confronti degli altri esseri viventi, domestici e non: cani, gatti, uccelli ecc. (per cui quando si voleva offendere una persona la si apostrofava come “animale”).
Non parliamo poi della nostalgia delle idee politiche di cui ricompaiono, purtroppo, ampi rigurgiti (anche nel senso letterale).
Questa è, a mio avviso, la nostalgia: non è altro che desiderare un ritorno al… passato.  Aggiungo, però: non è difficile rivivere quel passato così com’era. Chi vuole, infatti, vivere una vita… “nostalgica”, basta che vada a vivere, per un po’ di tempo, in zone o Paesi anche non molto distanti dal nostro. Ma non nelle città opulente e/o europeizzate o che fanno parte di un circuito turistico ma in villaggi sperduti o nelle lande deserte o quasi. Lì troverà lo stesso ambiente che vi era da noi negli anni passati e di conseguenza anche lo stesso modo di pensare. Allora potrebbe capire e sicuramente capirebbe perché succedono tante cose che a noi, oggi, fanno ribrezzo o, almeno esteriormente, ci fanno inorridire.  La nostalgia quindi non può che tendere al passato.

Ben altra cosa è il ricordo. Ricordare vuol dire, invece, proiettarsi verso il futuro. Per chi ama ricordare, è dolce raccontare il suo passato, la propria esperienza per farne partecipe gli altri sia a livello familiare sia, tramite il sito o libri, a livello dell’intero Pianeta. Egli cerca per quanto è possibile di far rivivere quei momenti e soprattutto l’ambiente. Senza alcuna pretesa; ma qualcuno, se vuole, potrebbe trarne qualcosa di buono. Porre le fondamenta per un futuro e, come diceva il Foscolo, “…quindi trarrem gli auspici” (Dei Sepolcri).
Il ricordo, però, è un fatto personale. È l’esperienza di ciascuno di noi o che ci viene raccontata da altri vicino a noi. È pertanto, “circoscritto”. Ma se lo si inquadra in eventi di più ampio respiro, corroborato da date e documenti, diviene storia a tutti gli effetti.
Grande storia se abbraccia popoli e nazioni, “piccola” storia se abbraccia eventi locali.

A tal proposito riconosco che nonostante i miei tanti buoni propositi di “tuffarmi” tra le vecchie carte della storia Isolana, non ne ho avuto mai il tempo. Il reo tempo, come diceva il Foscolo. Pertanto chiedo umilmente venia e nel contempo anche lumi a coloro che ne sanno di più di “storia patria” per ciò che mi accingo a scrivere. Inseguo, solamente, una mia logica e/o immaginazione a seguito dei racconti dei nonni (ah! i nonni ma soprattutto… i nipoti di una volta!) e di qualche persona più anziana di me.
Innanzitutto immagino l’ambiente dell’Isola un po’ diverso dall’attuale.

Non porto borbonico ma colline che “baciavano” direttamente il mare. Un ultimo esempio: fino alla metà degli anni ’50 del secolo scorso quando il mare lambiva casa mia perché la banchina nuova non esisteva e, dove oggi insistono ristoranti, pescheria e attracchi vari, vi era tutto mare. Uno scoglio nelle vicinanze là dove oggi ci sono le scalette nei pressi dell’Agenzia Magi. Detta porzione di mare era “abbracciato” da due promontori: uno quello di “Pataccone” verso ovest; l’altro, verso est, al di sotto della Punta Bianca. Avverto ancora la meraviglia quando in questo promontorio, letteralmente fu scavata una rampa di scale, piuttosto sconnessa. Essa dava un’alternativa a quelle più antiche che dalla suddetta Punta, portavano e portano alla banchina dove spesso mi recavo (o ero costretto) a recarmi. Qualche volta mi piaceva “ruinare” di là come se stessi affrontando chissà quale avventura!.

Mia nonna paterna mi raccontava – oltre ad alcune vicissitudini familiari ed aneddoti di ogni tipo di quando lei era poco più che adolescente e scendeva a mare alla Scarrupata per sentieri impervi – che a Sant’Antonio, agli inizi del ’900, dove oggi ci sono le case che si affacciano sulla strada, vi era un’unica distesa di sabbia. Lei, appena sposata, era andata ad abitare da quelle parti prima di trasferirsi sulla Dragonara. Penso che questa sabbia, negli anni antecedenti, quando non c’era nessuno che vi abitasse, s’incuneasse tra i Guarini ad ovest e le propaggini della Guardia, dove una volta c’era la “padura”. Il terreno è sabbioso? Pertanto arguisco che se vi fosse stato qualche sentiero (o resto di strada romana), questo era tracciato a metà della collina della Guardia (più o meno intorno all’odierno canalone dove vi era un canale di scolo delle acque provenienti dalla collina sovrastante). Quello partendo dal porto di Santa Maria, passando lungo i costoni delle colline: attuale Giancos e Guarini, intercettava il sentiero proveniente da Chiaia di Luna, altro antico porto romano. Passava, poi, nei pressi delle cisterne romane e di lì si dirigeva verso quella villa (prima, secondo me, gentilizia e poi imperiale), che insisteva sull’attuale collina della Madonna.
Data la morfologia dei luoghi, a ridosso del mare non ci poteva essere, per ovvie ragioni, alcun sentiero. I marosi, poi – ne sappiamo qualcosa – ne avrebbero fatto, ben presto, un bel boccone. Anche se, penso, che ai tempi dei Romani qualche piccolo approdo vi fosse.
Dappertutto, quindi, boschi intricati e numerose fonti d’acqua che dissetavano i rari naviganti e/o pirati saraceni che vi approdavano e dove si abbeveravano molti animali selvatici tra cui numerosi caprioli (ce lo dice il Boccaccio che a sua volta l’ha sentito dire dai naviganti).
I pochi abitanti, saltuari, si allocavano intorno al monastero di Santa Maria, rifugiandosi nelle grotte che poi divennero “case” ( ciò è successo fino a non molto tempo fa). Nelle notti buie, sulla spiaggia sassosa accendevano fuochi come facevano gli Achei durante l’assedio di Troia. Durante il periodo della pesca, cacciavano e si nutrivano di ciò che la natura elargiva gratuitamente in abbondanza. Poi abbandonavano ogni cosa e ritornavano là da dove erano venuti, probabilmente Ischia, Procida e zone intorno a Napoli, lasciando qualche dono al monastero fino a che quello è esistito (metà del XV secolo).

Immagino dunque i primi coloni che, in modo permanente, misero piede sull’Isola. Dove? Probabilmente a S. Maria, unico “porto” praticabile rimasto fin dall’epoca romana ed unica località di più facile coltivazione del terreno per i mezzi del tempo. Ed anche perché ’u lav ed i pozzi sorgivi davano abbastanza acqua tutto l’anno. Abitata, quindi, fin dall’antichità. Ovviamente chi prima arriva meglio alloggia. Pertanto i primi tra i coloni, si insediarono vicino a quel porto e al monastero o a ciò che restava. È, inoltre, una località “inondata” dal Sole fin dal primo mattino. Ciò è molto importante in l’agricoltura perché le piante “desiderano”, dopo il buio, la prima luce del Sole. I coloni del luogo furono “i Mazzella”; ma non potettero dare il nome alla località a causa del nome del monastero, ben più importante e radicato. Dove, tra l’altro, si venerava un Santo, morto colà o a Palmarola dopo aver subito molte angherie e il cui corpo era stato lì seppellito: papa Silverio. A Lui erano “affidati” sia i frutti del lavoro dei campi (la buona raccolta del grano e degli altri ortaggi che maturano sul fare e durante la stagione estiva) sia la “buona” pesca; pertanto la Sua solennità cadeva all’inizio dell’estate anche se dal Liber Pontificalis risulta che la morte, forse violenta, l’aveva colpito il 2 di dicembre dell’anno 537 A.D. (G. De Rosa: Gregorio Magno e Agilulfo).
Ma questi primi coloni avevano anche una predilezione per San Giuseppe. Per cui oso pensare che la prima festa religiosa importante fosse in onore dello Sposo di Maria. Poi, quando la comunità si estese, anche per la presenza di coloni provenienti da altre località del vesuviano, San Silverio per le ragioni suddette e per altri ovvi motivi, fu proclamato (nel 1777) patrono di tutta l’Isola.
Ma questa località era la prima e la più esposta alle incursioni dei pirati. Pertanto i suoi abitanti erano sempre all’erta e quando avevano sentore di un qualsiasi attacco, facevano nascondere le donne (quelle giovani) ed anche qualche “ tesoretto” in grotte ed anfratti ben nascosti e in mezzo alla paglia. Si racconta che qualcuno, alla fine del XIX secolo o giù di lì, ne abbia trovato uno.

Le altre località, prive di nome significativo (probabilmente ne avevano uno in precedenza, ma quale?), via via occupate, in breve, da nuovi coloni permanenti, assunsero il nome di coloro che vi si erano insediati. Così, a seguire, l’altra zona importante perché “baciata” costantemente dal Sole erano le pendici dell’ attuale collina oggi denominata monte Guardia. “Gli Scotti”, pertanto diedero il loro nome alla zona di cui presero possesso. Essa abbracciava tutta la collina fino alla spiaggia di Chiaia di Luna. Di lì e di fronte partivano i possedimenti dei Guarino, da cui “I Guarini”.
Mentre “i Conte” presero possesso di tutto il territorio circostante la zona che prende il loro nome che, a causa della vasta proprietà assunse il nome di Conti. Essa abbracciava, infatti, tutte le pendici del Ciglio e del Pagliaro e si estendeva fino all’attuale “Villa delle Tortore” passando per i Petruni, le Prunelle, il Cavone e Frontone.
Tutto ciò lo desumo dai racconti delle suddivisioni delle proprietà che erano date in eredità ai figli (solo maschi). Infatti, le “catene di terra” (appezzamenti di terreno) venivano distribuite ai figli un po’ qua ed un po’ là per fare in modo che ognuno di loro avesse una parte “ buona” ed un’altra “ meno buona” dal punto di vista agricolo. Così la proprietà si spezzettava. Il Sole imperava. Un figlio, ad esempio, poteva avere due “catene di terra” al monte Pagliaro o Ciglio più baciati dal Sole ma anche, in aggiunta, due “catene di terra” nei Petruni, zona più ombrosa.
La casa paterna spettava all’ultimo figlio perché era quello che avrebbe dovuto “ accudire” i genitori quando le forze venivano a mancare ( ovviamente non esisteva né pensione né altro: si era obbligati a lavorare fino alla fine dei propri giorni!).
I matrimoni, pertanto, avvenivano tra famiglie benestanti e poi, quando queste si allargarono, tra consanguinei perché “il grasso non deve uscire fuori dalla pignatta”.  In seguito sopraggiunsero altri coloni i quali, non trovando più spazio verso sud-est, furono “costretti” ad occupare zone meno agevoli e produttive dal punto di vista agricolo ma non dal punto di vista della pesca (ma quella era poco remunerativa nell’immediato; maggiore per i coralli e le aragoste) perché esposte a nord-ovest ( Le Forna). Tra essi: i Vitiello, i Feola (che sono stati gli unici, a quanto pare, a dare il loro nome alla località dove si insediarono), i Sandolo, i Pagano, i Romano ( i De Luca?) ed altri.
Questo arguisco ma senza documenti di sorta. Mi “appoggio” soltanto ai racconti dei nonni materni e della nonna paterna. I primi, infatti, appartenevano ai Mazzella e ai Conte, la seconda agli Scotti.
Noi, come cognome, siamo tra gli ultimi “forzatamente approdati”. Ma abbiamo radici anche a Le Forna (la bisnonna era una Romano).

Nessuno pensi che voglia “gloriarmi” o “guardarmi alla fonte”, lo dico semplicemente per “testimoniare” le mie origini. Ma forse dai loro racconti ho “sprigionato” troppa immaginazione.
Se, come ho detto prima, ho sbagliato, chiedo venia: anzi sono grato se qualcuno potrà aggiungere altro a queste poche righe. Sono sempre stato curioso, ad esempio, di sapere con quale mezzo, nei primi anni ’50 del secolo scorso, e prima ancora, chi abitava alle Forna raggiungeva la nave in partenza alle quattro e mezzo del mattino, ma soprattutto con quale mezzo tornava a casa quando la nave attraccava alle sette e mezza di sera, specie in inverno. O forse erano talmente pochi quelli che usavano la nave che se n’è persa la memoria?.

Mi fermo qui; altrimenti subentra un altro ricordo. Il quale, a causa della sua fervida immaginazione, a volte un po’ “birichina” (ma sempre aderente alla realtà) potrebbe dar fastidio a qualcuno…

E in un momento come questo è meglio anelare la pace – dice Pasquale – che augura Buona Pasqua e anche un bel gioioso Pascone (Pasquetta) tra: casatielli, pizza rustica, mastodontiche frittate e tanta… carne a cuocere (ehm… brace!).

 

Immagine di copertina. Panorama dei Conti con lo sfondo del porto. In primo piano il tetto della casa di mia nonna

1 Comment

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  1. Sandro Russo

    30 Marzo 2024 at 09:57

    La lunga (ma interessante) precisazione di cumpa’ Pasquale su cosa lui intenda per Nostalgia Ricordo e… Storia è una specie di esemplificazione del suo modo di raccontare. E anche Bixio ha voluto precisare: “Non sono un ‘ricordatore’, ma sento millenni sulle spalle. Sono ancora qui, residuo di ciò che è svanito per sempre” (leggi in: ‘A vicchiarella).
    Credo di essere stato “responsabile” di queste risposte (brevi o lunghe che siano), per il mio articolo “La grana dei ricordi” dei primi di marzo.
    Spero sia chiaro a tutti, ai lettori così come ai tre autori nominati – Pasquale Scarpati, appunto, Bixio e Lino Catello Pagano – che il mio non era in nessun modo un giudizio di merito, ma giusto una sottolineatura del diverso modo di raccontare e condividere immagini e emozioni di un mondo che è stato condiviso da molti di quelli che scrivono sul sito. Cose che tutti noi abbiamo conosciuto e che ognuno racconta come si sente; ancora più bello e interessante anche per questo motivo.

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