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Il mondo di Fra’ Diavolo (4). Le origini di un “brigante”di Pasquale Scarpati . Continuazione dalla puntata precedente (leggi qui) . – La situazione politica, economica e sociale non era ancora in subbuglio, quando l’8 del mese di aprile del 1771 nella “Insigne Collegiata e Parrocchiale Chiesa di S. Maria Maggiore” in Itri fu battezzato un bimbo della famiglia Pezza a cui si impose il nome di Michele, Arcangelo, Domenico e… – rivolgendosi a me con un sorriso -, il solito… Pasquale. Riuscii a fermare per un attimo questo “fiume in piena” ed intervenni: Non appena tacqui, subito lui riprese: – I genitori di Michele si chiamavano Francesco Pezza e Arcangela Matrullo. Alla morte del suocero, Francesco ereditò l’intero patrimonio poiché Arcangela era l’unica figlia. Esso era costituita da una casa, un oliveto, due vigneti. Da bracciante, di conseguenza, divenne un piccolo commerciante-imprenditore. La famiglia era composta da 4 maschi e 7 femmine. Morta la mamma, il padre oramai anziano si risposò con Giacinta Pennacchia da cui ebbe una figlia a cui diede il nome della prima moglie. Terminata la scuola, fra’ Diavolo si dedicò ad una delle attività artigianali più fiorenti del territorio locale: la lavorazione di basti e finimenti sotto la direzione di Eleuterio Agresti. Ma i rapporti del giovane Pezza con il proprio maestro e soprattutto con il fratello di quest’ultimo, Francesco, detto Faccia d’Argento andarono deteriorandosi con il passare del tempo fino al compimento del loro duplice omicidio. Il movente pare sia stata l’insofferenza per le bastonate ricevute. Altri, invece, dicono per motivi passionali: durante una rissa Fra’ Diavolo, innamorato di una donna sposata, avrebbe pugnalato un rivale in amore. Non gli rimase che darsi alla fuga. Poiché aveva fatto anche il conducente di muli, conosceva ogni anfratto ed ogni sentiero delle zone circostanti. Formata una compagnia di cinque uomini batteva la campagna al pari di altri briganti del luogo comandati dai Tatta. Altri omicidi gli furono attribuiti anche se nel successivo atto d’indulto si fece menzione esclusivamente dei due omicidi commessi a Itri. – Bisogna anche dire – aggiunse – che in quei tempi le condizioni di sicurezza pubblica erano molto precarie. Banditi, contumaci e latitanti, invadevano le montagne, le selve e le campagne. Fra’ Diavolo si pose al servizio del barone Antonio Felice di Roccaguglielma presso una località degli attuali monti Aurunci chiamata Campello e successivamente andò a Sonnino, paese di confine con lo stato Pontificio; la zona, situata al confine con la “terra di nessuno”, era molto frequentato da persone dedite al brigantaggio tra cui il famoso Antonio Gasbarrone. La sua latitanza fu sostanzialmente breve perché già nel 1797 (aveva allora 26 anni) aveva richiesto la commutazione della pena che fu accolta il 20 gennaio 1798. Gli fu permesso di arruolarsi per tredici anni in uno dei reggimenti esistenti in Sicilia o nel reggimento Messapia. Fuggito Pio VI da Roma e proclamata la Repubblica Romana, il 23 novembre del 1798 Ferdinando inviò un esercito al comando del generale Mack – guarda un po’… austriaco – per ristabilire sul trono di Pietro il Pontefice Romano. Entrò, pertanto, a far parte della coalizione (la seconda) con Russia e Gran Bretagna. Il 27 di novembre le truppe entravano in Roma mentre i francesi del generale Championnet si ritiravano ordinatamente. Il 29 dello stesso mese lo stesso re giungeva a Roma acclamato come liberatore. Ma i francesi, raccolte le forze, passarono rapidamente alla controffensiva e sconfissero ripetutamente il Mack che dovette precipitosamente ripiegare nonostante la superiorità numerica (sessantamila uomini contro trentamila). I soldati, laceri, scalzi, mezzo morti dal freddo e dalla fame, scappavano via, abbandonando ogni cosa, non appena si diceva loro che i francesi erano alle costole. L’esercito invasore commetteva, come accadeva in ogni guerra d’i tiemp’ miei (…credo volesse dire: antica!), soprusi ed angherie sia contro la popolazione inerme sia contro la Chiesa. Già dall’agosto 1798 Terracina era stata posta sotto assedio da parte dell’esercito francese comandato dal generale Etienne MacDonald e già da allora erano stati passati per le armi tutti coloro che osavano resistere. Si costituiva un governo repubblicano, si piantava l’albero della libertà e si nominava il comandante della città. Intanto il generale Gabriel Venance Rey marciava, con i legionari polacchi e un reggimento di dragoni francesi, lungo la consolare Appia; oltrepassò la Torre dell’Epitaffio e la Portella; entrò a Fondi dove fece un gran bruciare di carte, nei conventi e nelle chiese. Molte di queste, poi, furono adibite a stalle e sconsacrate. Ciò provocò l’insorgenza antifrancese autorizzata anche da un proclama del re Ferdinando in data 8 dicembre 1798 (ma è un falso retrodatato). La difesa del forte S. Andrea ed il disonore della resa di Gaeta La divisone Rey proseguì la sua marcia per Gaeta lungo la via Appia in un terreno impervio stretto tra i monti, le paludi ed il mare. A guardia del passo vi era questo Forte che tu vedi, munito di cinque pezzi di artiglieria. Considerato imprendibile frontalmente, poteva, però, essere facilmente attaccato sui fianchi. Resosi conto di tale pericolo Fra’ Diavolo, che si era rifugiato ad Itri perché il reggimento Messapia si era disciolto, il 17 dicembre del 1798 con molti uomini insorgenti reclutati tra soldati in ritirata e quanti volevano difendere le proprie famiglie, si presentò al comandante del forte, capitano Sicardi, offrendogli l’appoggio dei suoi uomini. L’ufficiale accettò l’offerta e pertanto gli uomini si disposero sui monti che vanno da Sperlonga a monte Fusco. In meno di due ore i franco-polacchi giunsero ad Itri, saccheggiandola, come avvenne per Castellone e Mola. Subito dopo le truppe avanzarono su Gaeta difesa dal maresciallo svizzero Carlo Tschudy. Ma costui si arrese senza sparare un colpo. . Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
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