Seguiamo l’appello di Alex Zanotelli (leggi qui) di scrivere più spesso dell’Africa, anche su queste pagine che sembrerebbero refrattarie al tema.
Ma mai dire mai… proviamo a trovare le chiavi giuste nelle parole “mare”, “umanità”, “teatro”, “poesia”.
Riferiamo di uno spettacolo teatrale che gira l’Italia da un paio di anni (di Giuseppe Cederna); del libro di Gian Maria Testa (sul sito, Ritals: ascolta qui) cui è ispirato; di una poetessa somala – Warsan Shire – che vive in Gran Bretagna e anche entra nello spettacolo.
Seminiamo… qualcosa germoglierà.
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Da questa parte del mare
Gianmaria Testa, oltre alla sua musica, ha lasciato un grande racconto dei nostri ultimi vent’anni, un viaggio struggente, per storie e canzoni, sulle migrazioni umane. Questo testo, che dà il titolo allo spettacolo, è interpretato da Giuseppe Cederna, diretto da Giorgio Gallione.
Da questa parte del mare è il libro della vita di Gianmaria Testa, arrivato in libreria postumo per Giulio Einaudi Editore con prefazione di Erri De Luca. È il racconto dei pensieri, delle storie, delle situazioni che hanno contribuito a dar vita ad ognuna delle canzoni dell’album omonimo, ed è un po’, anche, inevitabilmente, il racconto di Gianmaria stesso e delle sue radici.
È il racconto dei grandi movimenti di popolo di questi anni, ma è anche il racconto delle radici e della loro importanza. Radici che non sono catene, ma sguardi lunghi.
È il libro con cui Gianmaria si è congedato in pace, dopo una vita onesta e dritta.
È un patrimonio di riflessioni umanissime, senza presunzioni di assolutezza.
Un distillato di parole preziose che riesce a restituirci ancora e per sempre la sua voce.
È uno sguardo lucido, durato più di 20 anni, sull’oggi. Una lingua poetica, affilata, tagliente, insieme burbera ed emozionata. Bellissima.
Adesso questo libro diventa uno spettacolo teatrale vero e proprio e a portarlo in scena sarà Giuseppe Cederna che più volte ha condiviso il palcoscenico con Gianmaria e che con lui condivide ancora, soprattutto, una commossa visione del mondo.
Giorgio Gallione, altro amico, cura la regia, traducendo in linguaggio, immagini e forma teatrali, parole pensate per la pagina scritta, ma dense di sonorità e musica. Da questa parte del mare è un viaggio struggente, per storie e canzoni, sulle migrazioni umane, ma anche sulle radici e sul senso dell’“umano”.
Un piccolo e intensissimo libro più potente di mille chiacchiere.
E così lo spettacolo, mescolando le parole di Testa a quelle di Marco Revelli e di Alessandra Ballerini, affronta il tema delle migrazioni moderne senza retorica e col solo sguardo sensato: raccontando storie di uomini e donne.
Cederna sarà al contempo la voce di Testa, affiorante con lacerti accennati di canzone, ma anche quella scheggiata di coloro che non hanno voce, in un continuo campo e controcampo che ha quale elemento costante un mare che salva e insieme danna.
Guarda e ascolta qui, da YouTube:
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Parla proprio di questo spettacolo, un articolo de la Repubblica di OggiDa la Repubblica di oggi:
E noi da quale parte del mare stiamo? di Anna Bandettini
Un po’ per scherzo, ma neanche tanto, dice di essere tra i pochi titolati a parlare di Mediterraneo (sul sito, leggi qui), per via del film di Gabriele Salvatores che vinse l’Oscar nel ’92 di cui era tra i protagonisti.
In realtà, viaggiatore-scrittore infaticabile, dalla Grecia all’Africa, Giuseppe Cederna il “mare nostrum” lo conosce davvero e ora ci torna da attore con uno spettacolo che gira l’Italia, commovente ma non buonista, anzi, grottesco e romanzesco; curioso perché parte da un disco che è diventato un libro e ora appunto un recital, e perché sposta la prospettiva parlando di mare ma come terra comune, di viaggio ma come radici, di migranti ma soprattutto di noi che stiamo “da questa parte del mare”, come dice il titolo: Da questa parte del mare (il 19 è all’ElbabookFestival, il 21 a Montagne in provincia di Trento, Avigliana e sarà in tournée anche nella prossima stagione).
Con la regia di Giorgio Gallione, Cederna intreccia una serie di riflessioni umanissime «che spero servano a farci capire dove stiamo andando» a suggestioni sulla «bellezza e l’umanità mediterranea».
Ispiratore iniziale è stato Gianmaria Testa: il cantautore piemontese aveva scritto nel 2007 un disco di viaggi, dove cantava anche vicende e drammi delle prime migrazioni; poi quelle avventure erano diventate un libro uscito postumo dopo la sua morte, nel 2016 e a quelle pagine Cederna ha attinto, ripescando le narrazioni dei viaggi di Jean-Claude, Tinochika e tanti altri viaggiatori e migranti.
Intorno a loro ha montato in un unico racconto anche le sue personali storie di navigazione, le emozioni vissute, condivise, lette, e poi un racconto di Marco Revelli, le suggestioni sul Mediterraneo di Predrag Matvejevic, una dolcissima poesia della poetessa somala Warsan Shire.
Il collage di storie è commovente e delicato, sono storie di chi viaggia per salvarsi, per cercare fortuna, per andare altrove, storie che parlano di mare, di navi e naturalmente di migranti, ma senza «lo sguardo povero e impaurito che ha fatto emergere la parte meno nobile di noi tutti».
Sì, perché qui sta il punto: non è il teatro che deve risolvere i problemi del mondo ma la sua forza è che con una lingua poetica narrativa, ironica ed commossa, con il potere delle emozioni, parla a noi che «stiamo da questa parte del mare», specie a chi guardando ai migranti pensa che ci stanno invadendo e che noi dobbiamo difenderci.
Dice Cederna: «Proprio a loro con le sue storie, lo spettacolo racconta che un mondo aperto ci fa sentire meno soli ma soprattutto rafforza la nostra umanità».
[Da la Repubblica del 17 luglio 2018]
Warsan Shire è nata in Kenya il 1° agosto 1988 da genitori somali che poi hanno deciso di rifugiarsi a Londra per scappare dalla guerra civile della Somalia. È solita recitare le proprie opere ad alta voce, e fa parte del movimento letterario dei Black British Poets, immigrati che utilizzano l’arte per non dimenticare le proprie origini. Ha vinto diversi premi di poesia.
Le sue poesie hanno avuto grande eco in seguito all’inserimento nello spettacolo musicale Lemonade (2016) di Beyoncé.
“Casa”, di Warsan Shire
Nessuno lascia la propria casa a meno che la casa non sia la bocca di uno squalo corri verso il confine soltanto quando vedi tutta la città correre i tuoi vicini che corrono più veloci di te il fiato insanguinato nelle loro gole il tuo compagno di scuola che ti ha baciato fino a stordirti dietro la vecchia fabbrica della latta ora impugna una pistola più grande del suo corpo tu lasci casa tua soltanto quando essa non ti permette più di starci.
Nessuno lascia casa sua a meno che non sia proprio essa a cacciarti fuoco sotto i piedi sangue bollente nella tua pancia
Non è qualcosa che tu abbia mai pensato di fare fino a quando la lama non ha marcato a fuoco le minacce sul tuo collo e anche allora l’inno di casa tua è risuonato sotto il respiro soltanto strappando il passaporto nei bagni di un aeroporto singhiozzando ad ogni boccone di carta ingoiato ti rendi conto che non tornerai più indietro.
Dovete capire nessuno mette i propri figli su una barca a meno che il mare non è più sicuro della terra nessuno va a bruciarsi i palmi sotto ai treni, sotto i vagoni nessuno passa giorni e notti nel ventre di un camion nutrendosi di giornali a meno che le miglia percorse non significhino qualcosa di più di un viaggio nessuno vuole strisciare sotto i recinti nessuno vuole essere picchiato commiserato nessuno sceglie i campi profughi o le perquisizioni a nudo che ti lasciano il corpo dolorante o la prigione perché la prigione è più sicura di una città che arde e una guardia del carcere nella notte è meglio di quattordici uomini che assomigliano a tuo padre
Nessuno lo può sopportare nessuno ha lo stomaco nessuna pelle è dura abbastanza per gli “Andatevene a casa neri rifugiati sporchi immigrati richiedenti asilo che prosciugate il nostro paese negri dalle mani protese con un odore strano selvaggio”, “hanno rovinato il loro paese e ora vogliono rovinare il nostro”
Come fanno le parole gli sguardi storti a scivolarti sulla schiena ? forse perché il colpo è meno duro di un arto strappato o le parole sono meno violente di quattordici uomini tra o gli insulti sono più facili da mandar giù delle macerie delle ossa del corpo di tuo figlio in pezzi.
Voglio tornare a casa ma casa mia è la bocca di uno squalo casa mia è la canna del fucile e nessuno lascerebbe la propria casa a meno che la casa non ti abbia scacciato fino alla costa a meno che casa tua non ti abbia detto di affrettare il passo lasciarti dietro i vestiti strisciare attraverso il deserto annaspare negli oceani annegare salvarti patire la fame mendicare dimenticare l’orgoglio la tua sopravvivenza è più importante Nessuno lascia casa sua fino a che essa è una voce affranta nel tuo orecchio che dice “Vattene, scappa da me adesso non so cosa sono diventata ma so che qualsiasi altro posto è più sicuro che qui”.
In lingua originale:
Home
No one leaves home unless
home is the mouth of a shark
you only run for the border
when you see the whole city running as well
your neighbours running faster than you
breath bloody in their throats
the boy you went to school with
who kissed you dizzy behind the old tin factory
is holding a gun bigger than his body
you only leave home
when home won’t let you stay.
no one leaves home unless home chases you
fire under feet
hot blood in your belly
it’s not something you ever thought of doing
until the blade burnt threats into
your neck
and even then you carried the anthem under
your breath
only tearing up your passport in an airport toilets
sobbing at each mouthful of paper
made it clear that you wouldn’t be going back.
you have to understand,
that no one puts their children in a boat
unless the sea is safer than the land
no one burns their palms
under trains
beneath carriages
no one spends days and nights in the stomach of a truck
feeding on newspaper unless the miles travelled
means something more than journey.
no one crawls under fences
no one wants to be beaten
pitied
no one chooses refugee camps
or strip searches where your
body is left aching
or prison,
because prison is safer
than a city of fire
and one prison guard
in the night
is better than fourteen
men who look like your father
no one could take it
no one could stomach it
no one skin would be tough enough
for the:
go home blacks
refugees
dirty immigrants
asylum seekers
sucking our country dry
niggers with their hands out
they smell strange
savage
messed up their country and now they want
to mess ours up
how do the words
the dirty looks
roll off your backs
maybe because the blow is softer
than a limb torn off
or the words are more tender
than fourteen men between
your legs
or the insults are easier
to swallow
than rubble
than bone
than your child body
in pieces.
i want to go home,
but home is the mouth of a shark
home is the barrel of the gun
and no one would leave home
unless home chased you to the shore
unless home told you
to quicken your legs
leave your clothes behind
crawl through the desert
wade through the oceans
drown
save
be hunger
beg
forget pride
your survival is more important
no one leaves home until home is a sweaty voice in your ear
saying-
leave,
run away from me now
i dont know what i’ve become
but i know that anywhere
is safer than here.
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