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Si era nell’estate del 1550 e Dragut incrociava il mare davanti a Napoli. Con lui erano altri tre raìs che le cronache chiamano Cametto, Bagascia, Bellato.
Da Napoli il viceré don Pietro invia due navi in Africa a don Garcia suo figlio. Lasciato il golfo, nelle acque di Ischia furono attaccate dai barbareschi. Non ci fu battaglia. I legni spagnoli erano grossi e lenti perché carichi di merce. Tuttavia la sorte non fu avversa. Spirava un vento fresco di libeccio che nel corso della mattinata s’andò rinfocolando sicché le navi da merce lo tenevano bene mentre le leggere barche more faticavano a governare. Nonostante ciò, esse ebbero ragione di una delle due e, mentre ne prendevano possesso, l’altra si faceva portare dal mare velocemente verso Ventotene.
Dragùt, accertatosi che il carico consisteva in botti di vino, lasciò detto ai due subalterni di portarsi a Gerbe mentre lui si lanciò all’inseguimento dell’altra nave. Se l’avesse raggiunta prima che fosse riuscita a lasciare le acque dell’arcipelago ponziano la cattura poteva essere possibile. Certo, il suo legno era un fuscello al confronto con quell’altra ma lui confidava nella conoscenza dettagliata di quegli scogli. E nell’ardimento. Le sfide lo spronavano. E quando ciò avveniva si toglieva il turbante e si dava a mangiare più del dovuto. Dando evidenza alla rotondità del suo faccione, in linea con il tondeggiante corpo.
“Se riusciamo a farci sotto prima che lasci Ventotene – disse al Bagascia – quello si mette una paura tale che si rifugia a Bun-sah (questo il nome arabo di Ponza ). E allora è fatta. Il libeccio lo aiuta ma noi gli dobbiamo far scottare il culo… e la paura farà il resto “.
Mangiava pesce salato accompagnato con focaccia e guardava la sagoma della galea spagnola che cercava rifugio fra le isole. Il suo fuscello sculettava sospinto dall’onda rabbuffata e dondolava come alla deriva, ma il disegno l’aveva chiaro in mente e l’ardimento per attuarlo pure.
La calata della sera impedì a Dragùt di vedere la risoluzione presa dal capitano spagnolo ma delle sue previsioni era certo, come certa era la sua fama di indomito. “Ora si ferma nel porto di Bun-sah e domattina all’alba parte per capo Circeo. Lui pensa che io mi fermi a Ventotene per non affrontare il mare di notte. Domattina, seppure parto più presto di lui, non riuscirò a prenderlo. Farò così…” – e diede gli ordini a Bagascia che, conoscendolo, s’aspettava quella decisione.
La notte non si fece godere per la grossa luna che alle creste delle onde dava brillore e nel contempo permetteva al timoniere di dirigere la prua verso l’onda meno aspra. Così la piatta Ventotene si mostrò ad un tiro di schioppo e poi divenne sempre più piccola a mano a mano che Sennone (Zannone) si presentava come la naturale meta del loro penare.
Si trattò infatti di una traversata penosa. I rematori erano infiacchiti non tanto per il lavoro dei remi, perché col mare in poppa avevano fatto fare tutto al vento, ma il dondolìo era stato logorante e il riparo nella cala di ponente diede loro modo di rifocillarsi.
L’intento di Dragùt era scoperto. Quando l’indomani mattina il bastimento spagnolo, lasciando Ponza si sarebbe sentito liberato da ogni minaccia, all’altezza di Zannone avrebbe trovato la sgradita sorpresa di dover superare il suo blocco e… soltanto dopo, si sarebbe gettato fra le braccia protettive della costa laziale. Ma fra una galea spagnola stracarica e una audace fusta barbaresca nessuno avrebbe scommesso per la galea.
Intanto, mentre sulla fusta il sonno permise ai corpi di rigenerarsi dopo lo sballottamento dell’intera giornata, le luci dei fuochi sul crinale del precipizio della cala si moltiplicarono. Dragùt sapeva a cosa erano dovuti quei fuochi e non si preoccupava. Altre volte aveva costatato come la vigilanza dei monaci dimoranti sull’isola non si facesse sorprendere, per cui all’apparire del legno turco essi accesero falò per dissuaderli dallo sbarco. Ricordò pure come altre volte avesse superato ogni loro difesa e depredato quell’abbazia, gettando i monaci nella disperazione.
Ora i fuochi si inspessivano e dall’isola, sulla spinta del libeccio proveniva profumo di mortella. Dragùt si appisolò. Al mattino tutt’intorno il mare spumeggiava bianco. Non v’era segno di barca in cammino perché a nessuno il mare permetteva di solcarlo. Soltanto lo specchio della cala era intoccato dalla furia e in essa la fusta corsara appariva un elemento niente affatto di disturbo. Anche se gli occhi dei monaci dall’alto del dirupo osservavano con curiosità e apprensione.
Dragùt non diede segno di nervosismo. La burrasca a mare valeva per lui come per il legno spagnolo. Probabilmente quello era ancorato nel porto di Bun-sah. Non lo sapeva con certezza ma il suo intuito così gli suggeriva. Allo stesso modo il capitano della galea poteva ipotizzare la sua ubicazione. Solo ipotizzarla però. Nessuno dei due aveva la certezza. Le condizioni di partenza erano pari. Con la differenza che la nave spagnola aveva un carico di cui non voleva privarsi e lui invece di quel carico ambiva impadronirsi.
La giornata passò cercando di riparare i danni procurati dal maltempo. Fu cucito qualche strappo alla vela, una pala di remo fu riparata. Ci sarebbe stato bisogno di un po’ d’acqua dolce ma era indeciso. Non voleva allarmare ulteriormente i monaci e nel contempo voleva essere pronto a sfidare il nemico. Se non ricordava male c’era una sorgente d’acqua vicino al mare alle Grottelle. Aveva sapore di zolfo ma non era in condizione di scegliere. Al cavone del Lauro c’era un’altra fonte ma la discesa a terra avrebbe significato ingaggiare una lotta coi monaci. E non era il caso. Mandò Bagascia con gli otri a rifornirsi d’acqua mentre lui con altri due andarono sulla spiaggia sperando di catturare qualche capra. Semmai si fosse avventurata fra i ciottoli, perché aveva deciso che in nessun modo sarebbe entrato in contatto coi benedettini.
Passarono due giorni nell’inerzia e nell’attesa. Il mare non permetteva altro che godersi il bello dell’estate.
Al terzo giorno c’era soltanto l’onda residua. Bastò portarsi al largo coi remi e poi il vento avrebbe fatto il resto.
Della nave da carico nessun avvistamento. “Tu che dici – chiese a Bagascia – cosa starà facendo il nostro uomo? In ogni caso – incalzò senza attendere risposta – è inutile aspettarlo qui. Gli diamo altre possibilità di squagliarsela “.
Decise così di esplorare accortamente la costa di Ponza. Accortamente… si fa per dire perché in estate, con quel sole, seppure andava costa costa per non dare nell’occhio era impossibile passare inosservati. L’isola non era del tutto disabitata e per di più era fornita di guarnigione. La parte a nord no, quella era trafficata soltanto dai pescatori perciò sarebbe stato meglio passare di là.
Si portò dunque a ridosso di Gavi, poi bordeggiò le cale di Le Forna, doppiò Capo Bosco, setacciò sino a Capo Bianco, poi ancora oltre la punta della Guardia. Fare o no capolino oltre punta della Madonna? Sì, ma di quella maledetta nave non c’era ombra. L’azione che si accingeva a compiere era arrischiata e per questo lo solleticava. D’altra parte era la sorpresa la carta che voleva giocarsi e perciò tanto valeva gettarla sul tavolo della fortuna. Entrò fin dentro il porto e… della nave spagnola nessuna traccia.
Sì, va bene, dalla torre sul pianoro proprio sopra il porticciolo romano certamente le guardie s’erano allertate, ma soltanto loro perché, allo sbucare della sua fusta, sembrò calare un velo di immobilità, come quando sotto la nebbia la vita si nasconde.
L’impressione che ne ebbe Dragùt fu questa: che qualcosa si nascondesse.
“Dai – disse Bagascia – lascia perdere e andiamo via. Cametto e Bellato già saranno in vista di Gerbe. Lì sì che c’è da spassarsela “.
“Ma quella nave dov’è ? – chiese senza ascoltarlo Dragùt. La voglio almeno vedere!”.
Ridisegnò con la barca tutto il periplo della costa riconquistando Gavi, nel caso quel maledetto avesse percorso contemporaneamente a lui l’altra metà dell’isola e avesse preso il largo verso il Circeo. Macché, dall’isola non s’era mosso nulla. E allora ? L’equipaggio attendeva da lui una decisione risolutiva. Fu questa.
Quando finalmente il giorno si decise a cedere alla notte Dragùt scese a terra con alcuni fidati. Lo fece negli scogli della Parata , al riparo dalle difese del porto. Ma per incontrare qualcuno doveva portarsi presso le grotte abitate dai pescatori. Sapeva il percorso e così fece la salita della Punta e andò nelle grotte sugli Scalpellini, dove era sicuro di trovare gente. Queste persone, avvertite al mattino dalla presenza della fusta, si erano calmate soltanto dopo averla vista allontanare dietro l’isolotto di Gavi. Questo per dire che gli fu facile arrivare fin presso di loro senza intoppo. Nessuna vigilanza, nessuno scontro. Ma, in definitiva cosa voleva Dragùt?
Voleva sapere, voleva riuscire a capire con la minaccia qualche informazione sulla galea spagnola. “L’avevano vista loro?”.
“Sì, sì, l’abbiamo vista. Due giorni fa era in porto!”
“E poi..? – chiese senza ritegno Dragùt.
“ E poi il giorno dopo è salpata”
“Ma come può essere – incalzò il corsaro – se c’era quella libecciata…”
“ E’ vero – risposero i malcapitati – la libecciata c’era e pure forte, e infatti ci meravigliammo pure noi dell’uscita”.
“ E dove andò?” – chiese Dragùt.
“ Sparì dietro punta della Madonna “
“ Ah – bofonchiò il corsaro – il maledetto voleva farmi lo scherzo di venirmi di dietro. E poi …? “
Risposero: “Poi non abbiamo più visto niente… ma qualcosa è successo. Ieri i gendarmi hanno soccorso qualcuno preso a mare … “
Dragùt avrebbe voluto assalire anche la gendarmeria ma poi si rabbonì. Rifletté su quanto era venuto a conoscere. Il risultato era che il capitano spagnolo aveva avuto sentore che l’attracco nel porto non gli era sicuro. S’aspettava un agguato e, furbamente, aveva cercato di andar via alla chetichella. Il suo rifugio era la costa di Terracina con la catena delle torri a controllo delle presenze in mare e, nel caso, avrebbero inviato aiuti. Per raggiungere questo scopo non aveva esitato ad affrontare un mare difficile da domare. Ma il tentativo si era dovuto scontrare con qualcosa di imprevisto e di terribile.
[Dalla Storia le storielle: Dragùt a Ponza. (1) – Continua]
Questo racconto è stato tratto da un mio libricino Dragùt – Ponza 1999, dove è narrato per intero. L’ho ristretto perché la lungaggine danneggia il piacere della lettura. La cornice storica è tratta dal libro di Apollonj Ghetti (L’arcipelago pontino); la vicenda è inventata. (N.d.A.)