Filosofia

Ho cominciato a scrivere un commento… poi è lievitato

di Tano Pirrone

 .

Dopo  aver letto il mio o scritto del 30 marzo scorso  – Da dèi a animali – che a sua volte prendeva le mosse da un articolo di Gianni Riotta letto su la Repubblica (quello con un incipit truculento che descriveva torture e mutilazioni varie, Tano mi ha mandato un messaggio su whatsapp annunciandomi un commento da “persona informata dei fatti”. Mi diceva che conosceva personalmente il giornalista di Repubblica e naturalmente, aveva letto e digerito il libro di Harari “Da animali a dèi” di cui io avevo volutamente invertito il titolo. Mi chiedeva giusto il tempo di buttar giù i pensieri che gli urgevano in mente. Sono passati un po’ di giorni e visto che niente arrivava gli ho scritto chiamandolo Leone (Tolstoj) e chiedendogli a che punto era il suo “Guerra e Pace”.
Arriva, arriva… – mi ha rassicurato, solo che strada facendo il materiale gli era cresciuto sotto le mani e non era più un commento. Mi ha chiesto se lo accettavo lo stesso.
Che potevo fare?
Gli ho detto:
Sì. manda, manda!
Ed eccolo qui
Sandro Russo

 

Lettera aperta al mio amico Sandro, tuttologo per necessità
di Tano Pirrone – Del 1° aprile 2024, pasquetta piovosetta

Caro Sandro,
com’è complicato guidare la nave in un mare mosso e con un tempo instabile: soffiano venti (di guerra!) da ogni punto della Rosa, che spinosa così non fu mai e chi scrive lo fa a suo rischio e pericolo, perché ci si trova sempre soli o quasi contro tutti. Io, per esempio, sono incluso, per complesse e vaghe conformità politiche, in tre chat con orientamenti simili; in ognuna i partecipanti interagiscono contraddittoriamente in abili quanto sterili dibattiti, spaccando i pochi capelli in quattro e non solo quelli. Ognuno vuole marcare il territorio, come fanno i cani. I più “piccoli” sono i marcatori più tenaci: mi riferisco ai colleghi delle chat, non solo ai cani, cui serve un buon osso da rosicare.
Per fare rosicare gli altri, quelli che scrivono, basta ancor meno.

Gianni Riotta, dall’ottima carriera giornalistica gestisce la sua presenza cum grano salis. Lo conosco dalla metà degli anni Settanta: era il più giovane del gruppo DP/Manifesto in cui allora militavo. Andò via, al Manifesto, nella cui redazione di via Tomacelli ogni tanto andavo a trovarlo: da poco a Roma, navigavo a vista.

Gianni è sempre stato un moderato, e anche per questo ha avuto incarichi di responsabilità. Il suo articolo riflette bene lui e la sua storia. Ha un taglio inglese, descrive la situazione non blatera sentenze, come il pessimo giornalismo nostrano. Anche quest’articolo rimane abbastanza in superficie, impepato, sì, dall’apertura con l’immagine del terrore, il Pupazzo; poi commenti intuibili ma nessuna vera illuminante indicazione. È già qualcosa, comunque, nel panorama, soprattutto nostrano di proni pennivendoli che asciugano i loro panni agli incostanti venti dell’attualità planetaria, che portano odore di guerra da ogni direzione. Parola questa – guerra – poco nominata, preferendosi usare, da parte di tutti, sinonimi, giri di parole, mistificazioni, sofismi. Se dovessi riassumere la seconda parte dell’articolo, semplificando direi che chi ha seminato vento (la Russia certamente, ma gli Usa non sono stati da meno) oggi raccoglie tempesta: i Russi subiscono l’ondata di ritorno di sconsiderate politiche coloniali a volte fotocopie delle altre ingloriose campagne di guerra nordamericane. Gli errori di entrambi gli imperi s’impantanano nel ventre molle dell’Europa – sempre meno Unione e sempre più diafano Sogno perduto – che imbambolata sta a guardare, farfuglia e annaspa: che fallimento! E osano venire a chiedere il voto, per consolidare ottime sinecure da 20mila euro al mese! Qualunquismo, il mio? Appena un po’! Tutto si tiene in un temibilissimo equilibrio in attesa che qualcosa succeda: si attende, fra l’altro, lo scontro per la presidenza degli Usa fra due persone anziane, il democratico in calo di consenso e il repubblicano in assenza di buon senso!
Si attende che arrivi qualcuno che cavi il ragno dal buco.

Tu, Sandro, il tuo ragno dal buco lo cavi, chiudendo il tuo amaro articolo con questa frase, riferendoti alla Festa di Primavera delle tre religioni monoteiste: Per i credenti è un motivo di speranza; tutti gli altri [gli unanimemente aborriti e perseguitati, atei, agnostici e indifferenti] restano senza consolazione alcuna, ai loro pensieri più cupi. Fosse solo per questo, è evidente quanto sia più vantaggioso, ai fini del vivere meglio, essere credenti.

Chi non crede all’esistenza di un dio o è convinto della sua estraneità ai fatti del mondo, non per questo vive in un mondo tetro, buio e senza speranza: tutt’altro: ha in gran misura la brama e la capacità conquistata di vivere al meglio la propria vita, con giustizia e con rispetto, considerandola un anello dell’immensa rete di vite che nel tempo si alternano, adeguandosi, nella convinzione serena che, senza la Morte, la Vita non esisterebbe: la prima è condizione primaria ineliminabile per assicurare il formarsi della seconda, suo presupposto vitale! L’idea che, poverini, non abbiamo dio e quindi non abbiamo a chi delegare, io dico che questa è un’idea magra, semplicistica e autocelebrativa, che i credenti, massimamente cristiani, hanno di chi attraverso filtrazioni di dottrina, di cultura religiosa in genere è addivenuto nella serissima convinzione che credere a un ente soprannaturale con tutto il corredo di virtù poteri e fascini che la religione attribuisce a questa idea, credere a un ente supremo è una costruzione del pensiero consolatoria, fortificate, ma altrettanto fallace e illusoria.

Non sono credente: sbattezzato, non ebreo (guardare per credere!) e certamente non islamico. Ho simpatie per i cattolici come Francesco (il papa, sì) e come Marco Tarquinio, l’ex direttore de l’Avvenire, che da oltre due anni è stato l’unico giornale di cui ho letto il fondo e qualche raro articolo non di servizio. Ho simpatie e apprezzamento per maomettani che hanno dismesso la carica sopraffattiva per un ecumenismo temperato e una raffinata capacità di colloquio con i fratelli degli altri due rami dell’immenso albero monoteista, che affonda le sue radici solidissime nel Medio Oriente di cinquemila anni fa. Ho il ricordo di mia nonna, che veniva ogni giorno a trovarci: era piccolina, sempre vestita di nero com’era costume nella mia terra; portava sempre lo scialle nero, che le copriva la testa: abitudini radicatissime in una terra esemplare per la convivenza fra le tre religioni monoteiste, almeno fin quando non sono arrivati i “cattolicissimi” regnanti spagnoli, che l’hanno segnata per sempre con la cacciata di musulmani e di ebrei (ma solo quelli sopravvissuti ai sanguinari pogrom accessi da solerti predicatori nelle sublimate settimane sante), con l’introduzione della santa inquisizione e con la creazione delle condizioni che permisero la nascita della mafia, che colmò il vuoto di potere lasciato dai parassiti baroni trasferiti nella corte panormita.

Ora Harari, che mi da conforto. Da animali a dei, dunque, col pericolo costante di tornare al punto di partenza, come in un interminabile gioco dell’oca, sempre in bilico, ogni volta salvati da un… miracolo? Si possono fare mille esempi di ciò. E in ognuno di essi la vita e la morte sono state rosari interminabili, fiumane di terrore, vulcani d’ingiustizie… Ma mi rifiuto di accettare le parole messe in bocca ad Eichmann, catturato in Argentina dai valorosi agenti del Mossad nel buon film Operation Finale di Chris Weitz (2018): “Siamo tutti animali che lottano per avanzi di cibo sul Serengheti”; la frase è terribile perché non tiene conto del lungo cammino dell’Uomo da quell’altopiano a tutti i luoghi della Terra, cammino durato milioni di anni, in cui da quadrupede è diventato bipede, ed è l’Uomo di oggi con tutte le sue contraddizioni.

Ho letteralmente divorato la scorsa estate il testo di Yuval Noah Harari, da te citato, nell’edizione del 2017 “riveduta” (non so in che cosa) e poiché avevo fatto trenta ho desiderato fare trentuno (ed anche trentadue) comprando e leggendo i due libri successivi Homo Deus (2015) e 21 Lezioni per il XXI secolo (2018), ma sconsideratamente evitando di fare trentatré e trentaquattro. Come avrei fatto? Facile, comprando i due volumi di graphic novel editi da Bompiani “Sapiens, La nascita dell’umanità” e “Sapiens, I pilastri della civiltà”, per le matite di due geniacci del mestiere: il belga David Vandermeulen e il francese Daniel Casanave, ma subito altre curiosità hanno prevalso ed io ho lasciato sul ciglio della loro strada a fare l’autostop questi due magnifici volumi, che non possono mancare in case come la mia e quella del fratello Sandro.

Chiudo, affrontando, quello che mi è parso essere l’ospite muto, il letterario convitato di pietra, cioè, l’inesplicabile presenza del Male nella vita dell’Uomo; il conflitto eterno fra Bene e Male. Giusto gli stolti possono avventurarsi su questo sentiero: io posso dire soltanto poche parole, che fanno parte del mio leggerissimo bagaglio di saperi e di conoscenze: ma c’è una riflessione, una speculazione, che mi piace rappresentarmi quando sono frastornato dalla lotta sconclusionata e terribile fra quello che intendiamo per Bene e quello che indichiamo per Male, l’altra contraddizione insanabile come Vita e Morte – con essa, fra l’altro, connessa. Siamo nel Mito, naturalmente, sennò dove, di grazia? Non ci sono altri strumenti e chiunque affermi il contrario mente sapendo di mentire.

E il Mito racconta: cacciati per superbia dall’Eden, gli uomini conobbero il freddo e il caldo, la fatica, lo scoramento: diventarono vasi in cui albergavano sentimenti, in cui i rancori diventarono motivi per uccidere. E uccide, Caino, il proprio fratello Abele. Poi fugge ma l’occhio di Dio lo segue, lo trova, lo interroga:  «Che hai tu fatto? La voce del sangue del tuo fratello grida a me dalla terra. Sarai perciò d’ora in poi maledetto sulla terra che ha aperto la bocca per ricevere il sangue del tuo fratello, versato dalla tua mano. Anche se lavorerai non ti darà frutti; sarai ramingo e fuggiasco per il mondo».
Disse Caino al Signore:  «è troppo grande la mia iniquità perché meriti perdono. Ecco, tu mi scacci oggi sulla terra: sfuggirò la tua faccia e sarò ramingo e fuggiasco per il mondo. Perciò chiunque mi troverà mi ucciderà».
Ma il Signore gli disse: «Non, non sarà così. Anzi, chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte di più». E pose il Signore su Caino un segno, acciocché nessuno che l’incontrasse, lo uccidesse.”
Questi versetti mi sembrano strettamente necessari per capire che chiunque uccida o faccia del male è solo con se stesso, ma viene trascinato con gli altri fratelli e sorelle nel gorgo delle generazioni, e in quel fluire lo seguirà quel monito di speranza: Nessuno tocchi Caino, perché Padre di tutte le generazioni. Tutti gli uomini sono figli di Caino, sua discendenza e di Caino portano il marchio infamante ma sono seguiti dalla suprema protezione: nessuno tocchi Caino, mai, nessun Caino… nessun Caino tocchi un altro Caino. Il Male è la scelta fatta ab origine, il Bene è soltanto la pena, il dolore della colpa originaria, anzi delle colpe originarie: prima l’atto di superbia (l’allegoria della mela) e poi la sopraffazione del fratello. Così, però, diventa chiaro che Abele e la sua morte sono “necessari”, diventano strumento di Dio, perché attraverso questa mediazione il Male diventi visibile, si manifesti e si radichi nelle coscienze del suo popolo: per l’esigenza di riconoscersi come Uno, ma attraverso un processo dialettico basilare: Bene, Male, Salvazione.

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