Usi e Costumi

Costume, tradizione, folclore

di Francesco De Luca

 

In un periodo storico in cui i comportamenti sociali (costumi) mutano velocemente perché premuti da nuove mode, da smanie del diverso, le tradizioni vengono prima dimenticate e poi definitivamente perdute. Perché viene meno la forza propulsiva del loro essere e cioé il tramandamento: il replicare le consuetudini come fonte di vita comunitaria. Ovvero il ‘tramandare’, l’essere cioè riproposto in quanto vettore di una sua funzione sociale quale fonte di identità comunitaria.
La tradizione giace nel fondo dei costumi paesani come base vitale, da cui essi traggono, talvolta automaticamente, la loro motivazione ad esistere.

Se questa è la dinamica è abbastanza spiegabile la ragione per cui nei costumi di una comunità si estingue una tradizione. Si estingue perché non viene rinnovata nel tramandamento da generazione in generazione, e non viene rinnovata perché la sua motivazione di fondo, la sua anima comunitaria e identitaria non è più sentita. Non praticata. Ritenuta ininfluente.

C’è ancora da tenere presente che ogni tradizione è radicata all’interno di usanze proprie. Voglio dire, per farmi capire dai miei concittadini, che la tradizione  d’a marenna (la merenda) è inserita nel rito della vendemmia (sul sito, leggi qui). Ha lì la sua ragion d’essere, la sua modalità espressiva, la sua funzione propria. Estrapolarla da quel contesto non la rivitalizza, anzi, la destina ad una funzione di pura espressione conviviale. La fa diventare folclore. Per ridarle vita non basta mettersi intorno ad un tavolo, affiatati perché compagni di età e di ricordi, e rinvigorirsi davanti ad un piatto di  insalata di patate (piatto insostituibile d’a marenna). Non basta. Occorre riproporre l’evento della vendemmia, la sua fatica, la sua convivialità popolana e sfacciata, la soddisfazione di bere un vino contadino.

Cosa voglio dire? Voglio ribadire che la riproposta di una tradizione (secolare o religiosa, becera o dotta) si deve innestare in un contesto sociale che conosca le radici storiche della tradizione, che ne valuti la sua ri-attualizzazione, in termini di proficuità sociale (identitaria, culturale, economica finanche). Senza questa pre-condizione la ‘cosiddetta’ tradizione si tramuta in folclore. Non da denigrare, giacché dotata di una sua funzione, ma nulla ha da spartire con la tradizione.

Ho affrontato questo argomento con l’esperienza sessantennale della festività dell’Immacolata (8 dicembre). Una tradizione religiosa che sta scivolando inesorabilmente verso il folclore.

La sveglia mattutina al suono dei canti mariani, fatta dagli uomini della parrocchia S.S. Silverio e Domitilla in Ponza, ha un richiamo devozionale, un afflato amicale, una veste attrattiva. Qualità queste che le hanno fatto superare anni e diffidenze. Ancor oggi è viva e vitale …eppure don Ramon insiste nell’appello agli uomini: – Venite a confessarvi durante la passeggiata notturna.

Ove venisse meno quell’aspetto religioso, solamente religioso, tutta la manifestazione (i canti, i vecchi, i giovani, i Fornesi, la passeggiata notturna) diventerebbe folclore. Non essendoci più alcun fattore identitario: i giuvene d’ a Mmaculata, oggi vecchi, radi e claudicanti; la fede divenuta aspetto residuale; la presenza dei partecipanti, massiccia sì, ma non interessata.

Per cui? Per cui, in definitiva, ribadisco che le tradizioni, per rimanere tali, devono innestarsi in un contesto (devozionale, di pratica quotidiana o straordinaria) di partecipazione razionale. La tradizione ha bisogno di studio (e poi di emozione).

E qui si va a toccare inevitabilmente la funzione della Scuola (familiare, statale, parrocchiale). Perché è la Scuola che tramanda (razionalmente), è lei che avvicina (in maniera motivata) le nuove generazioni al vissuto delle vecchie. Diversamente non trasmette nulla, si limita a passare le carte, ad essere nastro trasportatore. Come una semplice commessa.
Di cui non si ha bisogno !

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