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Quando letteratura e vita si sovrappongono

Sandro Russo rende pubblico un commento/testimonianza di Carlo Secondino, previa sua autorizzazione, al racconto pubblicato ieri sul sito.

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Sul racconto “Qual è la cosa peggiore che ti ha mai detto un tuo genitore” di Iva Izabela Miholic
di Carlo Antonio Secondino  

È un piccolo segmento, il racconto di Iva Izabela Miholic pubblicato il 21 agosto, di una storia di vita il cui seguito posso solo immaginare; e, nel farlo, dal profondo dell’animo auguro, alla persona che è nei panni dell‘io narrante (nel caso si tratti di storia vera, dunque, all’autrice), di vivere una buona vita, resa sperabilmente più forte proprio da quella intensa sofferenza vissuta da bambina.

Confesso che questo breve racconto mi ha profondamente commosso; ne sono stato anche fortemente coinvolto, nel senso che la drammaticità della vicenda narrata ha generato in me un processo di identificazione.

Chiarisco subito che un tale processo non può essere stato generato dal fatto che la bambina, disperata, ma ostinata nel voler salvare la madre, giunta ormai sull’orlo del suicidio, faccia ricorso alla proposta di fuggire, lei e la madre, in Africa. Si comprende chiaramente che la sua è stata una idea riuscita, geniale in una bambina di nove anni: ma un escamotage, coronato fortunatamente da successo, finalizzato a un effetto immediato, non legato a un reale progetto: lo dico per coloro che sanno dei miei dodici anni vissuti in Africa, conoscono il mio attaccamento a quella Terra e potrebbero ipotizzare, erroneamente, che sia questa mia esperienza a favorire in me un processo di identificazione con alcuni punti della storia.

Né l’identificazione poteva avvenire sul punto della narrazione, drammaticissimo, in cui la madre manifesta alla sua bambina il proposito di suicidio. Con parole terribili: Sto andando al lago per uccidermi.

Anche mia madre e mio padre si torturavano in una quotidianità litigiosa e, ostinati tuttavia a restare insieme, riversavano, pur senza volerlo, i frutti tossici della loro discordia su di me e sulle mie sorelle, durante la nostra fanciullezza e adolescenza. Ma nessuno dei miei genitori giunse mai a dare, ad alcuno di noi figli, una sofferenza paragonabile a quella vissuta dalla bambina di questa storia, coinvolta direttamente dal proposito suicida della madre.

C’è un’altra profonda differenza tra le mie vicende familiari e quelle della bambina del racconto.
Un giorno, tragico oltre ogni dire per me e il resto della famiglia, mio padre si tolse la vita.
Ma io non ero un bambino, avevo trent’anni, e l’istinto di protezione verso le mie due sorelle, che vedevo più deboli di me, e verso mia madre, lacerata oltre che dal dolore anche da un ingiusto senso di colpa, mi portò ad attingere a fondo alla mia filosofia di vita, relativamente al concetto, già abbastanza solido in me, della morte e della sua ineluttabilità, del dolore e della necessità di una rielaborazione costruttiva del lutto.
Riuscii, pertanto, a essere di aiuto a mia madre, condividendo con lei la spiegazione che io stesso cercavo di darmi: mio padre soffriva di una inguaribile depressione e il vivere gli era divenuto intollerabile. Nel nostro affetto per lui non doveva esserci posto per l’egoismo, non avevamo il diritto di pretendere che egli continuasse a vivere al solo scopo di evitarci un dolore, per quanto forte questo potesse essere.
La tragedia del suicidio, minacciata nel caso della bambina, nella mia vita si compì.

Avevo trent’anni. La bambina della storia narrata da Iva Izabela Miholic ne aveva soltanto nove. Ancora una volta mi si farà notare che di vere analogie finora non c’è traccia.
C’è un’analogia, importantissima; solo una, ma sufficiente a farmi sentire vicinissimo a quella bambina che, a nove anni, si vide crollare il mondo addosso e dovette ‘crescere’ in un istante, divenire ‘adulta’ per salvare sua madre.

Entrambi, io e quella bambina, abbiamo vissuto una vita familiare tormentata dalla discordia dei genitori. Questa è la dolorosa situazione analoga. Detto questo su quanto abbiamo avuto in comune, devo però aggiungere che mi ritengo più fortunato di quella bambina: la sensazione di pericolo che noi figli vivevamo non giunse mai a rappresentare la minaccia che si abbatté su di lei.

Lascio spazio a un passo del racconto:
“Mi sentivo come se qualcuno mi avesse lacerato il petto con degli artigli, strappandomi le costole e strappandomi il cuore  […..]  Ho sentito il terreno coprire tutto il mio corpo come se fossi improvvisamente caduta attraverso il ghiaccio e nell’acqua gelida”.
Mi colpisce, in particolare, l’espressione “caduta attraverso il ghiaccio e l’acqua gelida”. 

Anch’io, mentre stringevo a me il corpo di mio padre ancora caldo, un attimo illudendomi, per questo suo stato, che egli potesse essere ancora in vita, sentii come se una lastra gelida mi si stabilisse nel petto, con l’effetto di procurare una scissione dell’animo in due parti: da un lato un io adulto, forte e adulto, tale da essere in grado di  fronteggiare un evento oltremodo tragico, dall’altro un “io” ancora bambino che era riuscito fino ad allora a non soccombere, e che ora continuava a lottare per non smarrire per sempre la sua capacità di sognare.

Carlo Antonio Secondino

 

1 Comment

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  1. La Redazione

    28 Agosto 2023 at 08:17

    Finalmente si leggono sul suicidio – tema delicato e coinvolgente come pochi altri – parole coraggiose, non banali né confessionali. Le esprime Enzo Bianchi, 80 anni saggista e monaco laico fondatore della Comunità monastica di Bose in Piemonte, sulla sua rubrica del lunedì “Altrimenti” su la Repubblica.

    Il mistero del suicidio
    di Enzo Bianchi

    Mentre per molti le settimane scorse erano tempo di vacanza, per altri ci sono stati momenti difficili. In Piemonte la notizia di due suicidi nelle carceri di Torino e di alcuni altri in situazioni diverse hanno destato domande intorno a questo tema sul quale si preferisce far regnare un silenzio di riprovazione. Il suicidio, nella tradizione occidentale ebraico-cristiana, è il peccatum magnum, uno dei pochi peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio (1).

    Non dimentico che, quando ero piccolo, durante le mie visite al cimitero presso la tomba di mia madre, mi spingevano ad andare anche nel quadrato di terra fuori dalla cinta, terra non benedetta anzi sconsacrata riservata al seppellimento dei suicidi, che, essendo scomunicati, non erano ritenuti degni neppure del funerale. Testardamente andavo sempre a pregare per loro anche se mi avevano detto che il Concilio di Braga (563 d.C.) vietava ogni forma di suffragio.

    Il cristiano che conosce la Bibbia sa che in essa regna il silenzio riguardo al suicidio, c’è la sospensione del giudizio. Solo Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino e Dante sigilleranno la condanna del suicidio con la motivazione che la vita non è proprietà della persona: è solo destinataria di un dono che con la morte deve essere restituito al Creatore. Questo spiega la severità della Chiesa nei secoli fino a oggi, con la vicenda di Piergiorgio Welby.

    Ma ora in verità si sollevano interrogativi, e uno spirito di compassione e di misericordia illumina l’atteggiamento di fronte a chi si è tolto la vita. Anche in ambito teologico si discute sul suicidio medicalmente assistito perché si è sviluppato un dibattito se la vita vada vissuta ad ogni costo fino alla fine, o se la si possa abbandonare quando non sono più garantite al malato cure adeguate, palliative e umane.
    Il fatto che una persona si chieda se la vita merita di essere vissuta o no significa che l’essere umano può uccidersi perché sta nella sua natura poterlo fare. E non si dimentichi: il dono della libertà dato da Dio è più grande del dono della vita. Chi si suicida porta con sé le ragioni di quest’atto e queste restano il suo “mistero”.

    Quando mi è capitato di ascoltare persone vicine al gesto del suicidio non ho mai giudicato: mi sono ritratto di fronte al mistero, ho preferito non dire nulla, solo mostrare che amavo e avrei voluto amare di più chi aveva deciso di lasciarci.
    E non si dimentichi che il suicidio diventa eloquente quando sa far gridare il suo sangue. Per la mia generazione Jan Palach, i bonzi buddisti, Frei Tito de Alencar Lima (2), con il loro suicidio hanno lasciato un messaggio: la libertà è più grande della vita.
    Del resto il suicidio non abita forse in ciascuno di noi come un veleno sotterraneo che a volte si manifesta come pulsione, quando ci rendiamo conto che il mondo non è vivibile? Non saremo tra quelli che, come si legge nell’Apocalisse, invocano il suicidio con una preghiera: “O monti, cadeteci addosso, colline copriteci!” (Ap 6, 16)? Perché i suicidi che avvengono sono più di quelli che sono attestati.

    [Da la Repubblica del 28 agosto 2023]

    Note

    (1) – I peccati capitali (sette) sono la lussuria, l’avidità, l’invidia, l’ira, l’accidia, la superbia e la gola.

    Oltre ai peccati capitali, secondo le Sacre Scritture (ribadito dal Catechismo di Pio X) i quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, sono:
    1. commettere omicidio volontario,
    2. l’atto impuro contro natura
    3. l’oppressione dei poveri
    4. defraudare l’operaio della giusta mercede.

    (2) – Ian Palach e i suicidi dei monaci buddisti sono più conosciuti. Quanto a Frei Tito, riprendiamo da Wikipedia:
    Tito de Alencar Lima (Fortaleza, 1945 – Parigi, 1974), conosciuto come Frei Tito, è stato un frate domenicano brasiliano che aveva aderito alla Teologia della liberazione, venendo perciò dichiarato un fuorilegge dal Governo dittatoriale del Brasile. Nel 1963 divenne Presidente della Juventude Estudantil Catòlica e dal 1968 fu incarcerato e torturato e più volte. Tentò il suicidio tagliandosi le vene, dicendo: «È meglio morire, piuttosto che perdere la dignità e la vita…». Sopravvissuto, fu espulso dal Brasile.
    Si rifugiò nel 1971 da alcuni confratelli domenicani in Cile, ma le torture e gli stenti a cui fu sottoposto gli provocavano sempre degli stati di instabilità mentale gravissimi. Arrivò a Roma, al Pio Collegio Brasiliano (il Collegio delle élite del tempo, aperto ancora oggi), ma le porte si chiusero perché venne considerato “pericoloso”. Fu, infine, ospitato nel Convento domenicano di Saint-Jacques a Parigi, lavorando come giardiniere a Villefranche-sur-Saône.
    Il 10 agosto 1974 il suo corpo fu trovato steso ai piedi di un pioppo, con le vene tagliate. Il caso venne archiviato come suicidio e il frate venne sepolto nel cimitero Sainte-Marie de la Tourette, a L’Abresle. Pochi giorni prima di morire, scrisse nel suo diario:
    «São noites de silêncio
    Vozes que clamam num espaço infinito
    Um silêncio do homem e um silêncio de Deus»


    «Sono notti di silenzio
    Voci che chiamano uno spazio infinito
    un silenzio dell’uomo e un silenzio di Dio»

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