proposto da Sandro Russo
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Le mie fonti sono le più varie – per quanto riguarda gli articoli da proporre ai lettori di Ponzaracconta -, essendo curioso per natura, ma i tratti che hanno in comune sono essere originali e avermi suscitato interesse; in sintesi essermi piaciuti. Così spero sia anche per voi.
Questo l’ho tirato fuori dal web, da una piattaforma forum dove gli utenti possono pubblicare loro contributi su qualunque argomento (https://it.quora.com/).
Ho anche apprezzato la brevità del racconto, che dice una quantità di cose importanti in meno di una pagina.
Qual è la cosa peggiore che ti ha mai detto un tuo genitore?
di Iva Izabela Miholic
Ero una bambina coraggiosa e forte.
Potevo sistemare le cose.
Potevo reggere tutto.
Stronzate.
No. Non lo ero.
E no, non potevo.
Ero una bambina spaventata, sfinita, triste, che portava nelle sue piccole mani il peso di tutto il dolore, l’agitazione, la colpa, lo sporco, la dipendenza, la gelosia, la malattia, il narcisismo e l’incuria, che potevano esistere in un matrimonio tra due persone.
Li amavo davvero, quindi dovevo sistemare tutto.
Una notte, quando avevo circa nove anni, sopraffatta dalla disperazione e dall’alcool, mia madre mi disse:
Sto andando al lago per uccidermi.
Era nel corridoio e si stava mettendo le scarpe.
Mi sentivo come se qualcuno mi avesse lacerato il petto con degli artigli, strappandomi le costole e strappandomi il cuore.
Ho sentito il terrore coprire tutto il mio corpo come se fossi improvvisamente caduta attraverso il ghiaccio e nell’acqua gelida.
Ho iniziato a farmi prendere dal panico, con un disperato bisogno di aiuto, ma ho capito in fretta che non avevo nessuno che mi potesse aiutare.
Ho guardato mia mamma. Si stava lentamente mettendo le scarpe. Sembrava insensibile, determinata.
Vivevamo vicino a un lago, dieci minuti a piedi. Era una fredda sera d’autunno e nella mia mente vidi acque nere profonde, che inghiottivano mia madre, portandomela via.
Ero sola.
Una bimba piccola, ultima linea di difesa tra sua madre e la morte.
Mia mamma era pronta e iniziò ad aprire la porta di casa.
Non c’era tempo di mettermi le scarpe, quindi le corsi dietro con le pantofole e le afferrai la mano. La sua mano era fredda e pendeva dal suo corpo.
La tenevo stretta come se fosse la mia stessa vita.
Iniziò a camminare per la strada in direzione del lago.
È qui che iniziai a blaterare. Parlavo allegramente, felicemente, ad alta voce. Parlavo della scuola e di ciò che il mio migliore amico mi aveva detto, delle foglie e dell’estate e delle canzoni. Parlai e parlai e mentre parlavo la trascinai via dalla sua strada, a poco a poco.
La trascinai in una piccola pizzeria, vicino a casa nostra. La feci sedere al tavolo e venne il cameriere.
Quanto dovevamo essere strane! Una donna senza vita negli occhi, seduta al tavolo, di fronte a una ragazzina frenetica, senza giacca e con le pantofole.
Mia madre ordinò una birra. Io ho ordinato un succo.
Mi guardava, senza alcun segno di riconoscimento.
C’erano molti adulti lì, seduti ai loro tavoli, che si godevano la serata. Mi guardai intorno con il cuore che sprofondava nella disperazione. Non volevo che mia mamma morisse, e desideravo che qualcuno mi aiutasse, ma non c’era nessuno.
Poi ebbi un’idea geniale. Mia madre aveva bisogno di un motivo per vivere, quindi le diedi il miglior motivo a cui potevo pensare:
Andiamo in Africa!
Ci lasceremo tutto alle spalle, domani, e viaggeremo verso l’Africa, per prenderci cura dei bambini affamati. Li aiuteremo, e questo è ciò che ci darà motivo di vivere.
Continuai a parlare di questo, mentre mia madre beveva una birra dopo l’altra. Creai bellissime storie sulla nostra nuova vita, e su quanto ne sarebbe valsa la pena.
Quando non avevo altro da dire, il mio cuore iniziò a battere come quello di un uccellino che sta per essere mangiato. Sussurrai: – Possiamo andare a casa adesso, mamma?
Lei annuì e l’aiutai ad alzarsi. Camminammo lentamente verso casa e le tenevo la mano come se l’avessi ripresa dalla tomba.
Camminammo e le lacrime mi scorrevano silenziosamente lungo il viso.
I bambini piangono ad alta voce, ma io piangevo come un’adulta, da sola, in silenzio.
Ho salvato la vita a mia madre dicendole che poteva andare a prendersi cura dei bambini affamati nell’altro continente. Non mi è mai passato per la testa di offrirmi come motivo per vivere.
Perché avrebbe dovuto voler vivere a causa mia? Non valevo abbastanza.
La notte era silenziosa.
L’unico suono erano le mie pantofole sul marciapiede che portava a casa nostra.
L’unica testimonianza della mia vittoria fu un bicchiere di succo, lasciato sul tavolo, intatto.
[di Iva Izabela Miholic; traduzione dall’inglese di Andrew McCoy]
***
TESTO INGLESE
What’s the worst thing your parent has ever said to you?
by Iva Izabela Miholic
I was a brave, strong, powerful child.
I could fix things.
I could hold it all up.
Bullshit.
No. I wasn’t.
And no, I couldn’t.
I was a scared, exhausted, sad little girl, who carried in her small hands the weight of all the pain, turmoil, blame, filth, addiction, jealousy, sickness, narcissism and neglect, that could exist in a marriage between two people.
I really loved them, so I had to make it all right.
One night, when I was about nine years old, overcome by despair and alcohol, my mother said to me:
I am going to the lake to kill myself.
She was in our hallway, putting on her shoes.
I felt as if someone clawed into my chest, tore my ribs apart and ripped my heart out.
I felt dread cover my whole body as if I had suddenly fallen through the ice into freezing water.
I started panicking, desperately needing help, but I quickly realized that I had no one to help me
I looked at my mom. She was slowly putting her shoes on. She looked numb, determined.
We lived close to a lake, a ten minute walk. It was a cold autumn evening, and in my mind I saw deep black water, swallowing my mom, taking her away from me.
I was alone.
Little girl, last line of defense between her mother and death.
My mom was ready, and she started opening the door of our apartment.
There was no time to put on my shoes, so I rushed after her in my slippers, and grabbed her hand. Her hand was cold, and it just hung from her body.
I held on to her as if she was my own life.
She started walking down our street in the direction of the lake.
That is when I started babbling. I talked cheerfully, happily, loudly. I talked about school and about what my best friend said to me, about leaves and summer and songs. I talked and talked and as I talked, I dragged her away from her path, bit by bit.
I dragged her into a little pizza place, close to our house. I sat her at the table and the waiter came.
How strange we must have looked. A woman with no life in her eyes, sitting at the table, across from a little frantic girl, with no coat and in her slippers.
My mother ordered beer. I ordered juice.
She was looking at me, without any sign of recognition.
There were many adults there, sitting at their tables, enjoying their evening. I looked around with my heart sinking in despair. I did not want my mom to die, and I wished someone would help me, but there was no one.
Then I got a brilliant idea. My mother needed the reason to live, so I gave her the best reason I could think of:
We will go to Africa!
We will leave everything behind, first thing tomorrow, and travel to Africa, to take care of hungry children. We will help them, and that is what will give us reason to live.
I went on and on about this, as my mother drank one beer after the other. I created beautiful stories of our new life, and how worthwhile it will be.
When I had nothing more to say, my heart started beating like that of a small bird about to be eaten. I whispered: – Can we go home now, mom?
She nodded, and I helped her up. We walked home slowly, and I held her hand as if I got her back from the grave.
We walked and tears silently streamed down my face.
Children cry out loud, but I cried like an adult, alone, in silence.
I saved my mother’s life by telling her she could go take care of hungry children on the other continent. It never even crossed my mind to offer myself as her reason to live.
Why would she want to live because of me? I was not worth enough.
The night was silent.
The only sound were my slippers on the pavement leading to our home.
The only witness to my victory was a glass of juice, left on the table, intact.
Autopresentazione dell’autrice, Iva Izabela Miholic
A burning girl, fairy, mom, writer, dancer, psychotherapist. Psychotherapist. A mom, before anything else.
Studied Education at Catholic University Zagreb
Lives in Zagreb, Croatia
Immagini (di copertina e nel testo), da: https://it.quora.com/