Pesca

I pescatori: la cattiva coscienza (ultima parte)

di Francesco De Luca

 

Pagine di storia affinché l’oblio non prevalga. 

per la prima parte: leggi qui
per la seconda parte: leggi qui

 

Il grande balzo in avanti della pescatorìa ponzese non ha trovato finora attenzioni degne da parte della società. Sembra un paradosso ma i pescatori sono circondati da una  marginale considerazione sociale. Confermata dalla mancanza di predilezione nei servizi (portuali, di rimessaggio, di rifornimento combustibile, di trasporto, di magazzinaggio, di sosta), e di iniziative che migliorino le conoscenze tecniche dei marinai, o che li avvolgano di stima e di riconoscenza da parte della cittadinanza.

Essi stessi si sentono non graditi. E motteggiano aspro e pesante verso i compaesani che li fanno sentire estranei nel loro stesso paese. Cosa è che non va? E’ che i pescatori non contano socialmente. Manca loro la possibilità  individuale di curare gli interessi sociali. Per inciso  faccio notare, perché conferma quanto dico, come la cultura marinara sia prevalentemente orale, ossia si alimenti e si tramandi nelle informazioni raccolte sulla bocca dell’altro. Per questo fanno comunella e stanno ore e ore a parlare, apparentemente di facezie, in sostanza di notizie utili.

E non contano perché la loro presenza è discontinua. Nell’arco dell’anno infatti risiedono stabilmente per quattro mesi. Nei restanti sono presi dal lavoro che fa tener loro col paese un rapporto saltuario e labile. Accade allora che gli interessi sociali sono curati nel periodo invernale. Non in modo esauriente però, per la limitatezza del tempo. All’atto di riprendere il mare sopportano dentro il sordo rancore di non essere stati ascoltati quanto avrebbero voluto. Al ritorno in paese si ritrova la situazione pressoché identica. Si rinnova allora l’impegno e si ricade nella frustrazione dell’irrealizzazione. Di nuovo malanimo, e costantemente la separazione fra corpo sociale e categoria dei pescatori si inasprisce. Ne consegue che essi  sono considerati socialmente secondari. Tanto è vero che non sono soggetti politicamente appetibili. Sinora infatti non s’è trovata un forza politica che ne abbia preso a cuore la causa e, di poi, ne abbia desiderato la rappresentanza. Non auspico un partito dei pescatori, ma un più stretto collegamento fra mondo peschereccio e mondo politico.

E poi, se mai uno di loro aspiri a carica pubblica, non trova credito perché la sua incidenza nelle cose pubbliche è ritenuta minima. Questo giudizio, invero, deriva dalla torbida concezione secondo la quale non è la giustezza della causa politica a polarizzare i consensi ma il ricatto sociale che la persona candidata agita come minaccia.

E’ ora che la marginalità storica venga definitivamente cassata. Con due interventi. Il primo da attuarsi da parte della società isolana attraverso le istituzioni che la sostanziano. Occorre rimediare alla cattiva coscienza di non aver curato una parte della popolazione, socialmente presente per attività e  occupazione.

Il secondo da attuarsi da parte dei pescatori, per liberarsi della cattiva coscienza di aver omesso di dar peso  alla propria forza sociale. L’essere stati sinora dei cani sciolti non è servito alla causa della categoria. Anzi ne ha ostacolato il senso corporativo. Ed è questo l’impegno prioritario che ciascuno deve profondere: rinsaldare i vincoli di comunione lavorativa. Dalla coscienza collettiva sicuramente nasceranno proposte migliorative delle condizioni e dello stato complessivo del lavoro. E dalle istituzioni isolane, espressione corposa della società, si riconoscerà che a considerazione marginale rivolta al fenomeno-pesca è ingiusta.

 

Da “Ponza: quale futuro?” – pagg. 89-91 – Edizioni di Odisseo- 1984

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