di Francesco De Luca
Pagine di storia affinché non si dimentichi
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Dopo la prima guerra mondiale, riaggiustati i gozzi e medicate le ferite, si riprese con vigore la via del mare. Come sempre prodigo con chi lo ama. E la marineria peschereccia e mercantile rifiorì, in concomitanza con il rinnovarsi degli insediamenti colonici sulle coste sarde.
Dopo la seconda guerra il risveglio fu più difficile. La nazione era allo sfascio e così pure la società ponzese. Si ritornò sui vecchi passi, ma qualcosa s’era irreparabilmente spezzato. Il commercio marittimo mostrò crepe insanabili. E la pesca? Essa imboccò gli antichi percorsi alla ricerca delle aragoste, ma i navigli erano decimati e la concorrenza più aggressiva. Ci si accontentò di rastrellare quanto era rimasto sui fondali dell’arcipelago. Nel generale disorientamento mancò anche agli isolani un obiettivo economico chiaro e specifico.
Finché non fu istituita la Cassa per il Mezzogiorno (1950). Un Ente chiacchieratissimo fin dalla nascita. Tuttavia provvidenziale per la pescatorìa isolana. Con i fondi che la Cassa elargiva, chiunque disponesse di un naviglio poco funzionante e di tanta intraprendenza poté diventare padrone di una motobarca, che aveva sognato per tutta la vita. E per stazza e per caratteristiche tecniche. Fu la manna per i Ponzesi. Quasi tutte la barche furono rinnovate. Due i mutamenti essenziali.
Il primo riguarda la condizione del pescatore. Adesso il passaggio da pescatore-marinaio a pescatore-armatore era facilitato, generalizzato, immediato. Gli esempi che confermano le modalità del processo sono sotto gli occhi di tutti. E’ un segno tangibile della democratizzazione della vita sociale.
Il secondo riguarda i sistemi di pesca. Prima ruotanti intorno alle aragoste e al corallo. Ora è la pesca del pesce azzurro (alici e sarde) a prevalere (nota: il libro è del 1984). La risultante è che Ponza possiede una flotta peschereccia invidiabile.
Il merito di questo è prevalentemente dei pescatori. Si sono dovuti armare di coraggio per fare un passo che era lontano dalle normali ambizioni: abbandonare i vecchi e malandati gozzi e dotarsi di moderne motobarche. Hanno dovuto reperire conoscenze per i nuovi sistemi di pesca e munirsi di attrezzature adatte. Si sono lanciati in un’impresa che richiede, oltre alle tradizionali doti di lavoratore del mare, anche quelle di dirigente. In una parola hanno dovuto compiere un miracolo di adattamento. Lo sa chi nel ricordo può confrontare la vita del pescatore di trent’anni fa con quella attuale. Indubbiamente si sono inframmezzate cause congiunturali favorevoli, ma, quando attribuisco gran parte del merito alle persone, lo faccio perché non era pensabile, soltanto decenni addietro, che il misero pescatore potesse diventare ‘padrone’ di un’impresa tanto vantaggiosa. Senza peraltro avere alle spalle studi superiori né associazioni a tutela.
Hanno avuto la loro naturale maestria che li rende accorti in mare, prudenti nella gestione, attenti alle novità, guardinghi. Le cause oggettive che ne hanno agevolato il decollo sono anzitutto nella richiesta commerciale di pesce. Sia per l’uso di carne fresca, la cui rete di vendita è capillarizzata. Sia per quella conservata. Il pescato è sempre insufficiente. Ci sono poi le provvidenze a sostegno che, seppure non determinanti, testimoniano la non dimenticanza degli Organi Statali.
Questo abbozzo di profilo si addice più ai pescatori-padroni che non ai pescatori-marinai. La distinzione è d’obbligo, non fosse che per ogni 12-13 marinai c’è un padrone. Tuttavia nemmeno è corretto pensare che su una massa di manovali si erga una illuminata élite. E’ più verosimile che su un vivaio di competenze e disponibilità c’è chi trova il modo di armare una motobarca. Il tutto senza predestinazione alcuna o privilegio.
Attualmente si nota una stazionarietà nel sistema. Dovuta certamente agli alti costi per l’armamento di contro alle esigue provvigioni statali. Insieme al fatto che si è instaurato un naturale equilibrio fra occupazione, pescato, guadagno.
Tuttavia voglio sottolineare come proprio la numerosità dei pescatori permetta il gioco del libero armamento. E’ un processo che segue l’andamento della evoluzione naturale, dove chi manca di forze si ritrae e chi se la sente muta lo stato lavorativo e da semplice marinaio diventa armatore.
Le caratteristiche generali del sistema-pesca sono le seguenti. E’ un sistema poliedrico. Ci sono barche per la pesca del pescespada, altre per le alici, altre per i merluzzi, altre per il corallo, altre per la pesca minuta, altre per lo strascico. Ognuno ha i suoi orari, zone, stagioni, rischi e vantaggi. La settorializzazione è oltremodo positiva perché aumenta le possibilità di sfruttamento, elimina la competizione accesa, vivacizza il sistema, rendendolo interattivo e capace di affrontare eventuali crisi.
E’ un sistema continuo. Il periodo di riposo si è notevolmente contratto. Oggi si può dire che per tutto l’anno si pesca. I mesi invernali sono dedicati al riassetto degli attrezzi e alla manutenzione degli scafi.
E’ un’attività dal reddito sicuro. Il minimo garantito è l’equivalente dello stipendio di un impiegato della carriera esecutiva. Insufficiente, forse, per la conduzione di una famiglia media. Ma se si raffronta il tempo lavorativo nell’arco dell’anno con il reddito si conclude che è equo. Anche perché permette l’integrazione con un secondo lavoro.
E’ un sistema suscettibile di aggiustamento. Dipendente dalla razionalizzazione.
La comparsa di taluni fenomeni rivelano la debolezza dell’organizzazione. Si prenda la pesca del pesce azzurro. Il volume del pescato fino a qualche anno fa era in costante aumento, ora man mano decresce. Le cause ufficialmente sono ignorate. Tuttavia anche il profano riconosce che le leggi biologiche vanno rispettate. Specie in un bio-sistema quasi-chiuso, come è il Mediterraneo.
Una indefinita crescita è impensabile. Più possibile è che lo sfruttamento intensivo della specie ittica conduca al suo esaurimento. Reagire a simili avvertimenti con l’incremento della potenza tecnica e attrezzistica significa misconoscere la natura del processo. La pesca, come viene attuata adesso, ossia con lo sfruttamento totale delle risorse, è irrazionale perché si taglia l’erba sotto i piedi. Forse sono accostamenti azzardati i miei, evocati dall’emozione, ma, se soltanto fossero accolti come segnali di un disagio, raggiungerebbero l’effetto voluto.
Identica attenzione merita la pesca del pescespada. Oggi effettuata con strumenti che uccidono delfini, testuggini e non lasciano passare i nati da poco. Sistemi cioè a uccisione selvaggia. I cui negativi riverberi si manifestano nella riduzione dei capi catturati. E se si reagisce allungando gli sbarramenti di reti l’effetto non voluto supera di gran lunga quello di una più ricca cattura. Sono riflessioni d’obbligo per chi sul mare spende la vita per trarne alimento. Né si può aspettare che gli Organi politici se ne avvedano.
Gli investimenti notevoli in gioco dovrebbero spingere gli interessati a sforzarsi di avvolgere di razionalità l’intero fenomeno. La qual cosa abbisogna previamente di una comunanza di interessi. A nessuno è concesso avere in tasca il toccasana per portare chiarezza dove c’è confusione. Tanto più che i mutamenti devono essere collettivi e non individuali. Orbene bisogna convincersi che soltanto rinsaldando i vincoli di categoria ci si può muovere per trovare soluzioni più idonee e razionali. E’ un passo che va fatto, contrastando le spinte individualistiche che vengono dalla tradizione e che forse trovano appoggio nelle distinzioni di funzioni e guadagni all’interno dello stesso processo lavorativo.
E, una volta cementata la solidarietà, richiedere agli Organi politici di manifestare la loro competenza decisionale. Sia per iniziative di natura scientifica, dirette ad elevare le informazioni di base degli operatori; sia di natura legislativa per adeguare la vita del settore alle richieste umane e alle esigenze bio-ecologiche.
Da ‘Ponza: quale futuro?’ – Ed. Odisseo – 1984 (Pagg.79-84)