di Nazzareno Tomassini
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Gent. Redazione,
se vi va di pubblicarlo su Ponzaracconta. Non so bene perché mi è venuta la voglia di scriverlo. Certamente ha influito la guerra in Ucraina, ma ci sono di mezzo anche l’età ed una irrinunciabile nostalgia del passato, qualunque esso sia stato.
Un saluto
Naz
Ricordi di guerra
Roma tra il 1943 e il 1945
di Nazzareno Tomassini
A quell’epoca avevo appena compiuto tre anni, eppure ho ancora delle immagini nella mia memoria che non ho mai cancellato. La II Guerra Mondiale era già iniziata quattro anni prima, ma fino al 1943 non avevo avuto nessun ricordo e non solo perché ero troppo piccolo, ma perché fino alla resa dell’Italia tutto era sembrato procedere nella massima normalità.
Abitavo all’ottavo e ultimo piano di un palazzo situato lungo la circonvallazione Clodia, alla fine del quartiere delle Vittorie e che aveva difronte Monte Mario, il suo bianco Osservatorio Astronomico, allora ancora funzionante, e dietro cui tramontava il sole. Un bellissimo spazio panoramico da cui potevo intravedere a sinistra la cupola di San Pietro e a destra i bianchi edifici dell’incompiuto Foro Mussolini; uno spazio abbastanza ampio dentro cui una mattina un caccia tedesco si infilò per sfuggire al caccia americano che lo inseguiva. Sentire come uno strano ruggito e vedere poi all’improvviso questi due aerei passarmi davanti come niente fosse, provocò in me un entusiasmo fuori luogo ma comprensibile per il bambino che ero. Ricordo ancora che sparirono verso sud dietro la collina che ospita oggi l’Hotel Hilton.
Villa Madama e le altre (articolo di N. Tomassini del marzo 2021 (leggi qui)
La vicinanza di Monte Mario significava per tutti i residenti del luogo una facile disponibilità di rifugi antiaerei. Ne erano stati infatti costruiti almeno tre lungo una stretta fessura del monte, a partire dalla strada in salita che porta a Villa Madama, la più antica delle ville che adornano ancora oggi le selvatiche pendici. Con i miei genitori ci sarò andato di fretta non so quante volte, appena sentivamo l’urlo crescente delle sirene d’allarme. E anche in questo caso mi divertivo molto, perché si correva e perché una volta dentro si incontrava gente e si chiacchierava senza troppe preoccupazioni perché mai una bomba era cascata dalle nostre parti (1). Per ogni evenienza, mio padre aveva comunque incollato nastri adesivi ai vetri di tutte le finestre perché non si frantumassero al minimo tremolio dell’appartamento; ma non ne fu mai bisogno.
Le bombe cascarono comunque a Roma, ma dall’altro lato della città, in particolare nel quartiere di San Lorenzo, vicino alla linea ferroviaria diretta a nord e che in quel periodo era molto utilizzata dalle truppe tedesche in ritirata. Quando mia madre seppe dalla radio la notizia, fu presa da grande curiosità e volle andare a vedere cos’era successo veramente. E ovviamente mi portò con sé. Andammo a piazzale Flaminio a prendere la “circolare” (un tram che faceva il giro della capitale) e quando, superata la città universitaria, arrivammo sul posto, non mi sembrò sul momento di notare grandi disastri. Ma poi entrammo nel vicino cimitero del Verano e allora notai una terribile confusione. Ricordo ancora in particolare la statua di un sepolcro monumentale che era saltata in aria senza rompersi ed era ricaduta a testa all’ingiù infilandosi nella terra rimossa e così era rimasta.
Il bombardamento di S. Lorenzo del 19 luglio 1943
Non posso chiudere questo elenco di ricordi senza parlare di come vivevamo comunque dentro casa. Ci fu un periodo in cui il gas non arrivava più e mio padre aveva installato sulla cucina inutilizzabile una piccola stufa a legna. Poi non arrivò più l’acqua ed allora ero io quello che si incaricava di andarla a prendere ad una vicina fontanella pubblica.
All’inizio mi davano da riempire una bottiglia, ma finivo quasi sempre per romperla perché mi distraevo e la sbattevo contro lo spigolo di un portone o un palo della luce. E allora mi diedero il classico fiasco impagliato e il problema fu risolto. Del resto, non potevo essere che io a incaricarmi dell’acqua, perché a un certo punto non funzionò più nemmeno l’ascensore e scendere per le scale e risalire fino all’ottavo piano non era pensabile per mia madre; io per contro presi la cosa come un’occasione per fare atletica e ancora una volta mi divertii, protetto come al solito dalla mia inconsapevolezza.
Un altro compito fu quello di sostituire ogni tanto mia madre per andare a comprare il pane con la tessera, perché era razionato e di mollica scura e acida perché la bianca farina era ormai diventata un prodotto raro. Poi un giorno scoprii che chi abitava in Vaticano o aveva un parente monsignore il pane bianco riusciva ad averlo; la farina buona arrivava infatti direttamente nello Stato Pontificio senza controllo, passando con il treno speciale sopra il doppio ponte ancora oggi visibile alla fine della via di Porta Cavalleggeri.
Ovviamente a casa non avevamo ancora nemmeno il telefono, né la televisione, ma questo non era colpa della guerra. Lo sviluppo tecnologico era ancora di là da venire e ascoltare la radio ci bastava. O almeno così ci sembrava. Quello che successe a via Rasella, ad esempio, e la reazione tedesca che portò alle Fosse Ardeatine lo seppi molto più tardi. Del resto nel mio quartiere periferico non incontrai mai un soldato tedesco e non ci feci nemmeno caso.
Poi un giorno arrivarono gli americani. Sembrava un giorno come tutti gli altri, quando dalla finestra cominciai a sentire inconsueti rumori. Mi affacciai e vidi subito una colonna di autoblindo, camion militari e jeep con la stella bianca impressa sul fianco, che passava lentamente, mentre i soldati che erano sopra gettavano caramelle e strane scatolette alla gente e ai ragazzini che già avevano cominciato a radunarsi lungo i marciapiedi. Gridare alla mamma “vado anch’io” e precipitarsi per le scale fu tutt’uno. E fu così che capii che la guerra era veramente finita (almeno per noi) e che scoprii le prime caramelle con il buco e le poi famose gomme da masticare (2).
Se non vidi mai cascare bombe, né vidi mai scene di guerra, ebbi però sotto gli occhi i segni di quello che era successo altrove e a cui io non avevo mai assistito. Per esempio, le pendici di Monte Mario di fronte a me, lì dove c’era un sentiero pedonale con il quale si poteva raggiungere l’Osservatorio, si riempì pian piano di casupole e baracche per ospitare tutti quelli che avevano perduto casa in seguito ai bombardamenti in altri luoghi della provincia romana. L’insieme fu chiamato alla fine “Villaggio Fanfani”, per ringraziare indirettamente il ministro DC che aveva lasciato fare senza chiedere permessi.
Ricordo poi anche la ragazza con una figlia più piccola di me, che aveva trovato rifugio in piccolo seminterrato del nostro palazzo. Aveva ceduto alle voglie di un soldato americano che le aveva promesso grandi cose e che poi era sparito nel nulla.
E infine c’erano due sorelle amiche di mia madre che non facevano altro che parlare del loro fratello partito con le truppe inviate in Russia e che non era più tornato. Ma loro non avevano perso la speranza…
Note
(1) – Un giorno di non molto tempo fa sono passato da quelle parti e ho avuto l’impressione che i tre rifugi antiaerei non solo esistono ancora, ma sono anche abitati. Non ho avuto il coraggio di rimontare lungo la piccola stretta vallata, ma ho notato in basso tre cassette della posta.
(2) – La guerra era finita da qualche anno quando ci fu un nuovo arrivo americano molto significativo e che non posso non citare. Una mattina vedo dalla finestra che una specie di autobotte di colore rosso scuro ha parcheggiato alla fine della via e qualcuno sta distribuendo bicchieri ai passanti. Non riesco a capire che razza di cerimonia stia accadendo e scendo per curiosità; mi avvicino, vedo che i passanti con il bicchiere in mano stanno già bevendo e sorridono; guardo allora l’autobotte (simile a quelle che portano i carburanti per le auto) e leggo su un fianco due sole parole: Coca Cola
Immagine di copertina. La scena finale di Roma città aperta (Rossellini, 1945)
Tano Pirrone
28 Aprile 2022 at 08:32
La pazienza non la perdiamo neanche noi, caro Naz, anzi. Impariamo la perseveranza e perseguiamo il dubbio, rinnegando le certezze. Il racconto è bello e merita di essere letto e meditato. Aspettiamo.