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Perché il cinema è paradiso (seconda parte)

di Lia Levi; proposto da Sandro Russo

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Strettamente collegata con le leggi razziali e le persecuzioni degli ebrei durante il fascismo – ne abbiamo scritto qualche giorno fa, 16 ottobre, nel 77° anniversario del rastrellamento al Ghetto di Roma – questa testimonianza di amore per il cinema di Lia Levi (1931, giornalista e scrittrice), è una delle più belle che abbia mai letto, strettamente intrecciata con la vita, attraverso gli anni e gli eventi cruciali del ’900.
S. Russo
Da Robinson de la Repubblica del 10 ottobre 2020

Per la prima parte, leggi qui

Amedeo Nazzari (4)

La vita del collegio, nei tanti giorni della paura, della fame (ma era quella di tutti!), dei nomi falsi, del far finta di essere cristiane, di scuola, di noia per passeggiate sempre nello stesso giardino, di grilli e campane, ma anche di spettacoli teatrali che mettevamo su uno dopo l’altro, non è il nostro tema. Questa è una storia che ha come protagonista il cinema e, parrà incredibile, il cinema non ha rinunciato ad assumersi il suo ruolo anche in quei giorni.
Una volta, e dà sorpresa anche a ripensarci, le suore, forse per qualche premio o per svagarci, hanno deciso di portare in un cinema parrocchiale tutte le educande di età sopra ai dieci anni. Oltre a me era quindi compresa mia sorella di quinta elementare (quella piccola no), e fra stupore e gioia non sapevamo cosa scegliere.
Se questo che racconto fosse uno sceneggiato di invenzione, ci sarebbe subito da dire « no, è una trama troppo scontata » . Non è colpa mia se invece è veramente successo che il cinema parrocchiale scelto dalle suore fosse proprio quello di fronte a casa nostra.
Quando siamo scese tutte insieme dall’autobus e abbiamo cominciato a camminare, io e mia sorella ci siamo guardate fra sgomente ed eccitate. Ma come, scappiamo sotto la pioggia, cambiamo nomi e preghiere, e poi ci ritroviamo a passeggiare davanti al portone del nostro palazzo di sempre! Il mio primo, saggio istinto è stato intanto quello di allontanarmi di colpo da mia sorella per attaccarmi al braccio di un’altra educanda. Nel quartiere ci conoscevano, e ripresentarci addirittura in accoppiata avrebbe di sicuro favorito un non gradito riconoscimento. L’altro espediente è stato quello “dello struzzo”, e cioè tenere gli occhi bassi, all’insegna del “io non vi guardo e quindi non sono guardata”.
Ma il mio cuore di occhi bassi non ne voleva sapere. Si era messo a battere a percussione veloce quel cuore, come succede, sotto tutti i soli dell’universo, a chi ritrova la sua tana e la sorvola.

***

Le suore, intanto, una volta raggiunto il cinema, ci avevano fatto accomodare con composto e disciplinato ordine sui sedili che ci erano stati destinati.
Guglielmo era là, dall’altra parte della sala, sempre con il suo sguardo torvo ma senza la sua squadraccia attorno. L’avevo solo intravisto, io continuavo a tenere la testa chinata, ma ne avvertivo lo stesso la presenza. Il film era Scarpe grosse, la storia di un contadino che si scopre figlio di un nobile, prima snobbato dai parenti, ma dopo rispettato perché è molto più “cervello fino” di loro. Non posso dire di non aver seguito la storia con il solito entusiasmo, no, era solo che continuavo a sentire come un fastidioso tirare dalla parte della nuca.
Quando si è riaccesa la luce non so cosa mi è preso. Con tutta la forza di mancato camallo (le mie amiche genovesi chissà dov’erano) mi sono alzata in piedi di scatto e ho puntato su di lui, il mio nemico, uno sguardo incandescente di ferro e di fuoco.
Sulla strada del ritorno mia sorella, che da grande avrebbe scelto una carriera scientifica, mi ha chiesto con tono freddo: «Quanto ci mettono ad arrestarti se qualcuno ti denuncia?».
« Una settimana » ho risposto a casaccio.
Una settimana è passata, e poi anche due. Non è successo niente.
Ma io lo sapevo. Lo sapevo che tu, CINEMA, non avresti mai concesso qualcosa di oscuro e profanatore nel tuo regno.

Aldo Fabrizi (5)

È stato ancora un film a segnare la seconda rivoluzione interiore della mia vita.
Eravamo nel 1945. La nostra città era stata liberata da un pezzo, anche se al nord la guerra non era ancora finita.
Ma per noi di Roma il futuro aveva già cominciato a fiorire e sembrava scoppiare di luce. Persino essere ormai diventatati poveri si era trasformato in una sorta di allegria vitale, perché (tranne i ricchi) poveri eravamo tutti, e questo, dopo tanti odii, ci faceva sentire più stretti l’uno all’altro. Le ombre che ci incombevano dentro non erano certo sparite, ma si erano andate a rincantucciare da qualche parte, come se preferissero essere custodite in un angolo segreto e riservato.
Un giorno i miei genitori ci portarono a vedere un film che si intitolava Roma città aperta. L’avevano cominciata a girare di nascosto quando in città c’erano ancora i tedeschi, questa pellicola.
Ma cosa mi stava succedendo? Qui non ero più invitata a trasferirmi in un altro mondo e a volar via insieme ai personaggi della storia raccontata. Non si sarebbe più verificato all’uscita quel mio immaginare di portare la faccia di una protagonista. Non ne avevo bisogno. La protagonista ero già “io” e, in questo caso, noi. Noi che vedevamo sfilare sotto ai nostri attoniti occhi tutto quello che avevamo passato, quello che era accaduto in quei terribili mesi tutto intorno a noi.
E mi veniva di alzarmi e gridare: «Sì! È così, è così! Come fate a saperlo?».
Allora, allora, rimuginavo poi fra me, sono cose che si possono tirare fuori da sé, possono tramutarsi in racconto! Ci ho poi messo quarantanove anni per elaborare dentro di me questa considerazione e renderla “operativa”.
A questo film destinato all’eternità ne sono seguiti altri, stesso impianto, stessi temi, forse altri sfondi, ma sempre un “loro” che eravamo “noi”. E sempre grandi. Sciuscià, Paisà, Il sole sorge ancora, Vivere in pace, Ladri di biciclette, correvamo forsennati da un cinema all’altro e sempre vivevamo la medesima emozione.

***

Ma c’era anche dell’altro, eccome se c’era! Finite le proibizioni nei confronti degli stati nemici di guerra, trasvolando il mare su un cocchio dorato, ecco che era arrivato il cinema americano. Era arrivata Hollywood!
La vita è meravigliosa, Notorious, Gilda, Sfida infernale, grandi, mitiche storie affrontate con fastosa dovizia di mezzi, il West con i cavalli, le star sinuose che diventavano simboli. C’era da sperdersi in tanto splendore.

***

La sala parrocchiale era slittata quasi nel nulla, film di questo genere non rientravano nei suoi casti programmi. Ormai noi andavamo nei cinema di seconda visione ( certe volte anche prima). Si poteva entrare in qualsiasi orario, ti sedevi al buio e vedevi il pezzo finale di un film, poi si accendeva la luce, di nuovo buio e di nuovo il film che ricominciava, e potevi guardarti la prima parte. La parola che usavamo per questa abituale manovra era ” comincio”. « Dobbiamo vedere il comincio! » , segnalavamo a mia madre quando era lei ad accompagnarci. Quando il ” comincio” si agganciava con la scena che avevamo già assaggiato e lei iniziava a strattonarci, « ancora un po’, ancora una scena» insistevamo in coro. Si finiva spesso con un film e mezzo, ed era una gioia aggiuntiva.
Lo so, io stessa oggi resterei orripilata all’idea di entrare in sala a spettacolo già iniziato. E quindi non ho nessuna intenzione, per nostalgia di gioventù, di difendere questa usanza barbarica. Dico solo che tutta la vicenda del “comincio” era una cosa bellissima, una specie di ginnastica di menti e sentimenti intrecciati che ci galvanizzava.

Sabu (6)

L’ordine che regolava il campo cinema a casa nostra, anche quando ormai ci muovevamo in modo autonomo, era “assolutamente non più di un film a settimana”. Ignoro se questo imperativo dipendesse da motivi economici o educativi, ma capita spesso che i due si lascino sorprendere in felice connubio.
E arrivò quel giorno fatidico.
Dopo tanto lavorio di cantieri associati, seguito da presso dalla cittadinanza, nella quasi estate del 1946, ecco, il nostro quartiere aveva finalmente il suo cinema. Aveva preso il nome di Vascello la sala pronta a prendere il via con la solenne inaugurazione nel pomeriggio di un giovedì.

A casa nostra nacque una discussione con mia madre. Sì, per quella settimana io mi ero programmata un film al cinema Colonna della Galleria Colonna. Mamma mi metteva in guardia, attenta, mi diceva, preferirai andare anche tu all’inaugurazione di questo Vascello. Non io, non io, insistevo cocciuta, io sceglievo un film, non un cinema! Andai al Colonna.
Quanto avevo sbagliato! Pareva che tutto il quartiere si fosse svegliato, pareva davvero il primo giorno del mondo. La vedevo dalla finestra quella folla che già un’ora prima stava fluendo verso il suo cinema: le suorine di Fellini che scivolavano silenziose e veloci, il fruttivendolo del mercato con, appoggiata alla spalla, la bilancia a stadera, la vecchietta stizzosa che strapazzava l’accompagnatrice, le professoresse tutte con il cappello, i ragazzi della squadra di calcio e l’intera mia classe…
Mia sorella era già pronta. Lei, “la scienziata”, aveva calcolato giusto. Aveva scelto il Vascello, è logico.
Ma successe il miracolo. Mia madre piemontese mi guardò fisso e poi con gesto lento mi mise in mano i soldi per il biglietto.

Al Vascello davano Il ladro di Bagdad con l’attore indiano Sabu, una favola magica, esaltante, si sentivano come rotolare le parole delle Mille e una notte. Altrettanto magico era il tetto del cinema che, all’occorrenza, scorreva via sui suoi cardini per permetterci di vedere il cielo e i palazzi del cortile che lo circondavano.

***

Poi arrivò la tv.
La gente impazziva per quelle immagini che si introducevano direttamente nel tinello di casa tua.
Possedere un apparecchio era però una faccenda assai costosa. Tanti non se lo potevano permettere. Neanche noi. Molte sere, un golfino buttato sulle spalle, la mia famiglia al completo raggiungeva la casa di un’amica (piemontese) di mamma. Era nel suo salotto con mobili antichi che vedevamo tutti gli spettacoli. E nella stagione di Lascia o raddoppia la frequentazione aveva raggiunto il suo culmine.
Noi, le due figlie più grandi, eravamo ormai all’università e facevamo piccoli lavori da studenti qua e là. Ma Lascia o raddoppia mica ci aveva fatto dimenticare il cinema!
Un giorno in edicola uscì un nuovo settimanale dal formato ardito a nome L’Espresso.
Per il suo lancio il settimanale ardito aveva scelto un concorso a premi. Si trattava di guardare le foto di film ormai classici e sostituire alla coppia degli attori protagonisti un’altra con interpreti italiani contemporanei. Per fare un esempio: chi ci metteranno al posto di Vivien Leigh e Clark Gable in Via col vento? Ogni settimana si proponeva un film con accanto, come in un cartellone, le foto dei possibili sostituti. Alla fine si doveva spedire il cartellone con l’intero nuovo cast. Chi andava più vicino a quello già elaborato dalla redazione vinceva.
Io, mia sorella e il nostro amore per il cinema ci siamo messi insieme per raccogliere le foto, discutere, meditare e, quasi all’ultimo giorno, spedire il nostro sofferto responso.
Un giorno mamma mi ha telefonato in un ufficio dove tentavo di apparire una segretaria. «Vieni a casa più presto che puoi!» me lo disse con voce allegra.
A casa mia sorella c’era già. Mamma ci consegnò una lettera che aveva cortesemente già aperto per noi. Mittente: settimanale L’Espresso.
Avevamo vinto!
Non eravamo arrivate prime, ma seconde sì. E perciò non avremmo ricevuto un’automobile, che neanche volevamo, ma molto di più: un apparecchio televisivo.
E così la televisione, in un enorme scatolone portato da due facchini, è entrata in casa nostra e, certo, nella mia vita.
Ma riflettiamoci: persino la TELE, persino lei, Sanremo e Superquark, me l’hai regalati tu, CINEMA!
E io non ti tradirò mai.

 

Immagini

4) – Scarpe grosse – È Amedeo Nazzari il protagonista del film di Dino Falconi Scarpe grosse (1940) epopea di un contadino che con un’eredità messa a frutto dal duro lavoro farà fortuna.

(5) – Aldo Fabrizi – In Roma città aperta, film di Roberto Rossellini (1945), interpreta il ruolo di don Pietro Pellegrini, parroco che protegge partigiani e antifascisti dalla violenza nazifascista.

(6) – Effetto HollywoodIl ladro di Bagdad è una pellicola a colori del 1940 che vince diversi premi Oscar con la sceneggiatura tratta dalle Mille e una notte. Nella foto l’attore indiano Sabu.

N.B. – L’immagine di copertina, la scena finale di Roma città aperta (Rossellini, 1945) e quella del cinema Vascello (non incluse nell’articolo originale) sono state scelte e inserite a cura della Redazione.

[Perché il cinema è paradiso (2) – Fine]

 

2 Comments

2 Comments

  1. Pino Moroni

    24 Ottobre 2020 at 12:32

    Una delle testimonianze più belle dell’amore per il cinema, attraverso quella identificazione con i personaggi, che abbiamo provato in tanti per tanti film. Anche per me il cinema ha rappresentato il paradiso.

    Un saluto

  2. Patrizia Angelotti

    25 Ottobre 2020 at 11:38

    Bellissimo lo scritto della Levi.
    Mi era piaciuto il precedente e questo ancora di più, ma come quasi sempre accade, almeno a me, le parole non riescono ad esprimere il mio sentire.
    Del resto, benché io sia una sostenitrice dell’importanza delle parole, so quanto sia difficile rendere l’intensità, la profondità, l’articolazione di un sentimento.
    Buona domenica
    Patrizia

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