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Anniversario del 16 ottobre 1943. La razzia nazista del Ghetto di Roma

Elaborazione di Fabio Lambertucci

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In occasione del 77° anniversario della razzia nazista del Ghetto ebraico di Roma del 16 ottobre 1943, propongo un articolo: “La casa nel ghetto dove iniziò l’orrore” della giornalista culturale Simonetta Fiori (Cagliari 1959), apparso su “la Repubblica” del 4 ottobre 2013. Si tratta di una recensione del saggio della storica Anna Foa “Portico d’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43” (Laterza, 2013). 
Fabio Lambertucci

Non ci sono foto sulla razzia del ghetto, il 16 ottobre 1943. Eppure i nazisti avevano l’abitudine di riprendere ogni cosa, perfino le esecuzioni di donne e bambini nei villaggi russi. Ma di quella giornata non ci sono rimaste immagini.
Quasi a riempire un vuoto inspiegabile, a settant’anni dalla retata che portò a morire oltre un migliaio di ebrei, esce un saggio singolare che non è solo ricostruzione storiografica ma anche efficace racconto di persone e luoghi, di angosce e illusioni, di viltà e coraggio, di gesti un po’ folli contro un destino di tragedia. La storia di una casa, al numero 13 di via Portico d’Ottavia. Un edificio antico, di impianto medievale, pieno di bizzarrie e impreviste fughe, dove perdersi o anche ricominciare a vivere. 

Il caso ha voluto che una decina d’anni fa in quella casa andasse a vivere una storica, Anna Foa (Torino 1944), autrice di libri importanti sulla storia degli ebrei.
Entrando nel suo appartamento, all’ultimo piano tra labirintiche terrazze, s’interrogò su quel luogo del passato. Chissà quante vite, nel succedersi delle generazioni. E quanti lutti, quante morti. Ma quella non era una casa uguale alle altre. Là, tra la loggia interna e le tante deviazioni inaspettate, all’alba del 16 ottobre (del ’43 – NdR), gli uomini del capitano Theodor Dannecker cominciarono la razzia nel vecchio ghetto. Cosa accadde quel sabato nero? In che modo fu segnata l’esistenza di un centinaio di persone, per lo più povera gente, stracciaroli, ambulanti, sarti, falegnami con mogli, figli, cognate, certo tra i più umili della comunità? E quanti riuscirono a scappare attraverso i tetti e le cantine? Frugando negli archivi e nelle testimonianze dei sopravvissuti, la studiosa è riuscita a comporre una microstoria che accanto ai dettagli della vita quotidiana pone delle questioni essenziali della storia più grande.

Non è facile scrivere un libro sul 16 ottobre 1943, specie dopo un capolavoro come quello di Giacomo Debenedetti (1901-1967).

Ma Foa riesce a vincere la sfida. Il lettore si ritrova a risalire le scale del grande edificio come devono aver fatto i nazisti di Dannecker. Ecco gli uomini che fuggono sui tetti, le donne no, le donne, con i bambini e gli anziani, vengono spintonate sui camion. Qualcuno cerca di consegnare i più piccoli in mani sicure. Nelle cantine giù in fondo c’è grande agitazione. In quelle stesse cantine, dopo qualche giorno, Giulia Sciunnach avrebbe dato a vita a una bambina, per poi portarla dalla nonna, imprigionata a Regina Coeli in attesa di Auschwitz. Si trattò di coraggio o incoscienza?, s’interroga la storica.

E il pensiero corre alla sua personale vicenda quando i genitori Vittorio Foa (1910-2008) e Lisetta Giua (1923-2005), la condussero a Torino a conoscere la bisnonna, in una casa sorvegliata dai nazisti. Anche quello “un modo di sconfiggere il terrore privilegiando la vita quotidiana e gli affetti”.

Molte cose, settant’anni dopo, restano inspiegabili. Perché quasi nessuno aveva abbandonato la casa pur sapendo della minaccia nazista? E perché ci si illudeva che donne e bambini fossero esclusi dall’orrore?

La studiosa non si ferma alle prime plausibili spiegazioni: si trattava di una comunità povera, che non poteva beneficiare delle stesse risorse dei borghesi. Ma interviene anche una motivazione più profonda, legata al sentimento d’appartenenza, alla tradizione, all’essere ebrei. Anche la paura di lasciare i recinti famigliari. Ci si sentiva più sicuri, tra le spesse mura di quella vecchia casa. E molti vi fecero ritorno all’indomani della deportazione, solo per dormire nel proprio letto, cuocere le azzime o prendere le lenzuola. Fu la ragione per cui, se 35 furono gli ebrei arrestati all’alba del 16 ottobre, altri 14 sarebbero stati presi nelle settimane successive. Sei assassinati alle Fosse Ardeatine, nel marzo del 1944.
“Stanno bene, non vi preoccupate”, aveva rassicurato Celeste Di Porto (1925-1981), una tragica figura di ebrea che ritroviamo in molte delle storie.

Celeste Di Porto, la giovane ebrea responsabile dell’arresto di molti ebrei romani, all’epoca del suo processo nel dopoguerra

Era una spia al soldo delle bande criminali, cacciatori di ebrei in una Roma governata dal caos. Il padre, per la vergogna, si sarebbe consegnato ai nazisti.
Celeste nel 1947 viene condannata a 12 anni, di cui cinque condonati. Il saggio fa riflettere anche sulla mitezza delle sentenze, nel dopoguerra segnato dall’amnistia. Processi che cercano la conciliazione senza giustizia. E la storia della casa è anche un modo per rendere giustizia a quei morti.

[di Simonetta Fiori, da “la Repubblica” del 4 ottobre 2013]

 

Il quartiere del Ghetto, oggi

Il Portico di Ottavia

La Sinagoga

“Pietre d’inciampo” che ricordano i cittadini romani di religione ebraica assassinati dai nazisti

Lapidi di ricordo nel Ghetto di Roma

 

Commento di Sandro Russo del 16 ottobre (cfr)

Il cortometraggio del 1997 di Ettore Scola (1931–2016), “1943 – 1997″ – opera sconosciuta ai più – con poche sequenze, costruisce un discorso dal grande impatto emotivo, mostrando tutta la capacità espressiva ed evocativa del cinema.
Parte dallo stesso Portico di Ottavia e mostra nella ricostruzione cinematografica quello che (come scrive Lambertucci) non fu documentato nella realtà.
Scola ha girato questo “corto” più di vent’anni fa. La sensibilità di un artista di precorrere i tempi  e di rendere il discorso universale, si mostra tutta nell’analogia tra gli ebrei di allora e i nuovi reietti di oggi. Con uno sguardo di speranza.
Abbiamo rivisto volentieri il filmato: noi non vogliamo dimenticare.

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2 Comments

2 Comments

  1. Sandro Russo

    16 Ottobre 2020 at 07:00

    Esattamente due anni fa abbiamo pubblicato, come Redazione, un articolo rievocativo di questi stessi eventi… ma ben vengano la diversa angolazione e la pluralità di voci al riguardo: leggi qui
    Ad esso abbiamo fatto seguire un cortometraggio (di circa 9 min. e mezzo) di Ettore Scola che ora riproponiamo. Certe immagini ed emozioni vanno vissute e rivissute, perché si imprimano meglio
    Il cortometraggio del 1997 di Ettore Scola (1931–2016), “1943 – 1997″ – opera sconosciuta ai più – con poche sequenze, costruisce un discorso dal grande impatto emotivo, mostrando tutta la capacità espressiva ed evocativa del cinema.
    Parte dallo stesso Portico di Ottavia e mostra nella ricostruzione cinematografica quel che non fu documentato nella realtà
    Scola ha girato questo “corto” più di vent’anni fa. La sensibilità di un artista di precorrere i tempi si mostra tutta nell’analogia tra gli ebrei di allora e i nuovi reietti di oggi.
    Abbiamo rivisto volentieri il filmato – è annesso in fondo all’articolo di base -: noi non vogliamo dimenticare.

  2. Fabio Lambertucci

    16 Ottobre 2020 at 12:47

    Ringrazio la Redazione per l’inserimento del breve filmato di Ettore Scola nell’articolo.
    Ricordo di aver letto che quando al Ghetto si videro gli attori vestiti da SS, alcune persone, che non erano state avvisate delle riprese del film, si sentirono male per l’orrore di aver già vissuto quelle tremende scene. Quel “corto” è un vero capolavoro e per il suo messaggio andrebbe fatto vedere almeno una volta a tutti gli studenti d’Italia.
    Grazie ancora.

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