





|
|||
Viaggi (4). Mal d’Africa
“…Ora io so una canzone dell’Africa; [Karen Blixen: “Out of Africa” (1937); ‘La mia Africa’ (1959); Feltrinelli]
Grande l’Africa. Immensa e inconoscibile. Tranne i pazzi e gli eroi nessuno avrebbe la presunzione e l’ardire di avvicinarla, o di andarla “a scoprire”. Per fortuna c’è una stagione della vita in cui si è giovani; ci si imbarca in imprese pazze o bizzarre – perché si sta appunto vivendo – senza intenti ben definiti e senza il bisogno di capire perché. Quello – la ricerca del senso – è un tema che appartiene ad una stagione successiva della vita. Quasi per tutti è così. Ritratto del viaggiatore, da giovane. La ‘prima volta’ – azzardo o salto nel vuoto che lo si voglia chiamare – c’è, credo, per tutti i viaggiatori. E’ una strana sensazione, quella di non riuscire a immaginare il giorno dopo. Quando quel che ti aspetta, il posto dove andrai, sono talmente indeterminati da non riuscire a figurarti il paesaggio che ti farà da sfondo, le persone intorno… Come se il mondo conosciuto finisse al momento dell’imbarco e di lì in poi ci fosse il vuoto. Prima c’erano state esperienze abbastanza comuni: viaggi su e giù per l’Italia, qualche paese europeo; la ‘botta di vita’ al festival dell’isola di Wight, ancora da studente universitario. Una tipica proposta del caso. C’è un progetto del Ministero degli Esteri, attraverso il “Servizio di Cooperazione con i Paesi in via di Sviluppo”, per istituire una università in Somalia. Nei primi anni diverse università italiane inviano personale docente; col tempo si dovrebbero costituire dei docenti locali e la struttura dovrebbe diventare autonoma. Alcune occasioni non le scegli spontaneamente, ma quando ti arrivano non puoi rifiutarle… Ricordo l’arrivo. I pantaloni diventati subito roventi al contatto con la pelle che per qualche minuto ancora mantiene la temperatura condizionata dell’aereo. L’aeroporto: una pista di cemento che finisce nella sabbia; il trasferimento a piedi sotto un sole rovente fino alla casamatta in fondo alla pista; i capannelli di persone con le tuniche della gente del deserto accoccolate a terra intorno ad un piccolo fuoco e ad un bricco di acqua che bolle. Odori, suoni nuovi, inusuali. Poi il trasferimento in jeep con l’uomo della Cooperazione, attraverso dune di sabbia mai viste prima; arbusti stenti e spinosi, capanne e baracche di lamiera e di fango, sempre più fitte. Degli oltre tre mesi passati a Mogadiscio ho un ricordo indelebile: a tutti gli effetti la prima vera esperienza di diversità, di ‘altro da me’. I primi giorni sono di acclimatazione, i colleghi da conoscere, il luogo di lavoro, gli studenti cui avrei fatto lezione. Un collega cortese, che conosco da Roma, si occupa di accompagnarmi una delle prime sere in un localaccio: ‘Dal cinese’, per la ‘ricolonizzazione batterica intestinale’. Dopo vari tentativi trovo un alloggio diverso dall’albergo. C’è un numero variabile di ospiti, da tre a cinque, a seconda delle stanze disponibili. Mi ritrovo con un pediatra di Roma e sua moglie e con una anatomo-patologa di Firenze. Abbiamo (ovvero, la casa dispone di-) un boy che si chiama Jeylani; parla un misto di italiano e inglese e non ci sono problemi a capirsi. A Jeylani devo tutta la mia gratitudine, per avermi fatto scoprire, con le conoscenze di uno del posto, un mondo completamente nuovo. Mi dice i nomi locali di piante e fiori, che poi vado a cercare nei miei libri; mi spiega stranezze locali, che uno straniero mai riuscirebbe a capire. Il mercato è una continua fonte di meraviglie. Nei sacchi di juta appoggiati tra la polvere ci sono semi e cereali mai visti; su banchi improvvisati, frutti anch’essi sconosciuti e decine di varietà di banane, oltre a quelle che conosco: da minuscole a enormi, quelle rosse, quelle piccole al sapore di mela che chiamano ‘zanzibarine’. Quando, passando con Jeylani, vedo qualcosa di incomprensibile, lo tiro per la jellaba e lui mi spiega; come davanti a un banco dove sembra vendano mosche: blocchetti di mosche. Jeylani si avvicina e le scaccia con la mano: è il banco dell’uva passa. Il mercato di Mogadiscio. Sono in vendita, per uso alimentare, una varietà incredibile di semi, tuberi e radici, a noi occidentali del tutto sconosciuti L’edificio dove si svolgono le lezioni é fuori città, quattro chilometri circa; ci si arriva con un percorso in jeep, su una strada prima asfaltata, poi di sabbia tra le dune.
Nota
[Viaggi (4). Mal d’Africa (prima parte) – Continua] Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
|||
Ponza Racconta © 2021 - Tutti i diritti riservati - Realizzato da Antonio Capone |
Commenti recenti