Canti

Il mare di Salvatore Di Giacomo

Proposto da Gabriella Nardacci

 

«V’è accaduto mai di ritrovare esistenti le immagini a cui dette forma e vita la vostra fantasia solamente? A udire la piccola e bionda miss alla quale un mio amico, professore a Cambridge, aveva indicato me come un cicerone opportuno alle escursioni partenopee, mi sarei, fra poco, trovato al cospetto evidente delle amorose cose e delle persone che i versi della mia canzone avevano già, sulla morbida nenia del Tosti, quasi fatto famose. La piccola finestra e il vaso de’ garofani e Carolina, tutto questo, dunque, era per apparirmi e svelarmisi a momenti, vivo e vero?

“Siamo arrivati, dear sir…”.

Miss Mary ora levava gli occhi dal suo Stendhal che s’era messo a leggere tranquillamente durante la traversata, e m’indicava qualcosa che subito pigliava forma.

La barca filava, filava con più spedito cammino. Adesso, dal largo, s’era approssimata alla costa: a fiore dell’acqua apparivano alcuni ruderi d’antiche costruzioni. Le onde gemevano appié delle collinette e investivano lì, senza furore, i pilastri crollanti, le colonne spezzate, i residui delle opere greche reticolate e laterizie, ch’un tempo erano state a guardia de’ vasti Campi Flegrei, nascoste dal verde coronamento del lido.

“Marechiaro”, annunziò miss Mary…

E si levò ridente. Il velo turchino del suo largo cappello di paglia si gonfiava e palpitava. Tutta la sua bella figura, alta, eretta, elegante, si disegnava sul cielo e sul mare. La barca s’arrestò e dette fondo in un piccolo seno, uno specchio di chiare e quete acque che l’opera dell’ormeggio turbò poco. La riva ascendeva. Assorgevano dalla riva i primi gradini d’una scaletta scoperta e al sommo della scaletta era la terrazza dell’osteria. Sembravano seppellite nell’arena sottile le origini della scala; l’osteria, tutta bianca, pareva una fabbrica antica, e quel lido solatìo, quasi segreto, faceva pensare a una marina mitologica, a un’Arianna improvvisamente riscossa dal suo pianto o dal sonno, e fuggita, seminuda, in una di quelle arcadiche grotte».

 

[Salvatore Di Giacomo: Marechiaro, in Il teatro e le cronache, Milano, Mondadori, 1946, pp. 469-470]

 

 

Un commento

 

Era un ragazzo borghese, Salvatore Di Giacomo (Napoli, 1860-1934), quando nel 1880, lasciò la facoltà di medicina, cui si era iscritto per volontà dei genitori: durante una lezione di anatomia, un bidello aveva fatto cadere, paurosamente, le ossa che componevano uno scheletro finto. Di Giacomo, da allora, ebbe l’occasione di percorrere la strada desiderata ed intraprese la sua avventura nel mondo della letteratura e del giornalismo: fu redattore della pagina culturale de “Il Corriere del Mattino” e scrisse numerose poesie, novelle, opere teatrali, che segnarono pagine importanti della storia partenopea. Di Giacomo, ragazzo borghese, divenne uomo borghese, affascinato dalla città, ma incapace di mescolarsi nella folla dei bassifondi e dei vicoli, incapace di macchiare le sue lucide scarpe con il fango rimbalzato via dalle ruote della carrozza: diversamente da Raffaele Viviani, egli guardò Napoli con l’occhio di un figlio privilegiato, che non ha conosciuto, in modo sanguigno, il ventre di sua madre. Emblematica, a questo proposito, la stesura, nel 1885, del testo di “Marechiaro”, la canzone che consacrò, a buon diritto, la fama del poeta e del letterato: Di Giacomo la compose senza aver mai visto la finestrelle ed il famoso vaso di garofani, di cui aveva parlato nei suoi versi. Egli si recò a Marechiaro soltanto anni dopo, come guida di un gruppo di stranieri: e qui, vedendo le piccole grotte tufacee lambite dal mare luminoso, rintracciò una misteriosa consonanza tra gli incanti della natura e gli antichi racconti mitologici. Eppure, secondo la cronaca, Di Giacomo avvertì uno strano senso di colpa proprio verso quei luoghi, per averne scritto senza conoscerli direttamente: si dice, infatti, che, quando qualcuno si congratulava con lui per il successo della canzone “Marechiaro”, il poeta era schivo e silenzioso, turbato al punto da fuggire lo sguardo dei suoi interlocutori.

 

[Da: “Miss Mary e il mito di Marechiaro”, di Antonella Carlo (Maggio 2007)

 

Qui

Ascolta la canzone e segui le parole

 

A Marechiare

(Musica di Paolo Tosti, testo di Salvatore Di Giacomo, 1886)

Quanno spónta la luna a Marechiare,
pure li pisce nce fanno a ll’ammore…
Se revòtano ll’onne de lu mare:
pe’ la priézza cágnano culore…

Quanno sponta la luna a Marechiare.

A Marechiare ce sta na fenesta:
la passiona mia ce tuzzuléa…
Nu garofano addora ‘int’a na testa,
passa ll’acqua pe’ sotto e murmuléa…

A Marechiare ce sta na fenesta….

Chi dice ca li stelle só’ lucente,
nun sape st’uocchie ca tu tiene ‘nfronte!
Sti ddoje stelle li ssaccio i’ sulamente:
dint’a lu core ne tengo li ppónte…

Chi dice ca li stelle só’ lucente?

Scétate, Carulí’, ca ll’aria è doce…
quanno maje tantu tiempo aggi’aspettato?!
P’accumpagná li suone cu la voce,
stasera na chitarra aggio purtato…

Scétate, Carulí’, ca ll’aria è doce!…

 

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