Ambiente e Natura

L’agricoltura possibile

proposto da Sandro Russo

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Molte opinioni sui fatti che accadono hanno una genesi complessa: si formano per l’analisi e il raffronto di posizioni di esperti del campo, con una quota di partecipazione/aderenza al tema trattato, il tutto corredato da una dose di buonsenso, mantenendo l’ideologismo al minimo.
In tale ottica propongo – sulla questione cogente di questi giorni – queste due letture ai lettori di
Ponzaracconta.
S. R.

L’intervento
Un’altra agricoltura è possibile
di Serena Milano
(*) – Da la Repubblica del  9 febbraio 202

I conti non tornano da troppi anni. Bisogna garantire prezzi equi ai coltivatori, premiare chi produce cibo sano nel rispetto del suolo, educare i consumatori perché siano in grado di scegliere la qualità

Caro Direttore,
la tempesta perfetta ha travolto l’agricoltura europea: i continui eventi climatici estremi (siccità, grandinate, alluvioni) hanno ridotto le produzioni, i prezzi pagati ai produttori sono sempre più bassi, i costi per fertilizzanti, fitofarmaci e carburanti sono aumentati.
In una situazione del genere, imporre limitazioni di carattere ambientale non poteva che avere un effetto dirompente, e così è accaduto. Nel mirino sono finite proprio le norme per preservare la fertilità della terra, vitali per il futuro degli agricoltori.

Nel settore agricolo i conti non tornano da troppi anni. Molti agricoltori non riescono nemmeno a coprire i costi di produzione. Un litro di latte fresco costa circa 2 euro, ma il prezzo pagato agli allevatori è di 55 centesimi. Per ogni litro di latte solo il costo dei mangimi è di 23 centesimi.
Da 100 kg di grano tenero si ottengono 84 kg di pane. Per quei 100 kg gli agricoltori ricevono 25 euro, mentre il prezzo medio di 84 kg di pane è di 350 euro.

Il punto di partenza, quindi, deve essere questo: garantire prezzi equi agli agricoltori, premiare chi produce cibo sano nel rispetto del suolo, educare i consumatori, perché siano in grado di scegliere la qualità.
Ma non basta, c’è un’altra questione sul tavolo da tempo. Importiamo prodotti da Paesi che non rispettano le regole valide in Europa. L’83% della soia per i nostri allevamenti, ad esempio, arriva dal Sud America, in particolare dal Brasile, dove l’area deforestata e coltivata a soia è più vasta della Germania. Il Brasile è il più grande consumatore di pesticidi del mondo.
Alcuni di questi contengono principi attivi micidiali, come il paraquat. Pesticidi proibiti in Europa da decenni, ma venduti da multinazionali europee e ricomprati dalle aziende europee in forma di soia.
Per evitare questa concorrenza sleale esiste uno strumento normativo: le clausole specchio. Queste norme stabiliscono che i prodotti alimentari importati debbano rispettare gli stessi standard sanitari, sociali e ambientali dell’Europa. Alcune sono già previste (sulla carne bovina trattata con ormoni), ma devono essere introdotte su tutti i prodotti.

Giusta remunerazione e concorrenza leale sono le basi di un percorso che, però, deve portare a una agricoltura sostenibile.
Fare passi indietro sui pesticidi e la fertilità del suolo è un errore gravissimo. Ormai troviamo residui di pesticidi ovunque: nel suolo, nelle acque, nei cibi, persino nel sangue e nei capelli.
Uno dei più diffusi è il glifosato, un diserbante che passa dalle foglie a tutta la pianta e al suolo, dove rimane per anni. Secondo il Centro di Ricerca sul Cancro è “probabilmente cancerogeno”, ma si parla meno degli effetti sull’ambiente, che invece sono certi.
Il glifosato aumenta la concentrazione nel suolo di nitrati (del 1.592%) e di fosfato (del 127%), riduce la capacità delle piante di assorbire nutrienti e fissare l’azoto, danneggia gli organismi viventi nel suolo e nelle acque.
Eppure, a dicembre l’uso del glifosato è stato autorizzato per altri 10 anni e ora è stata ritirata la proposta che mirava a dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030 e a ridurre del 65% quelli più pericolosi.

L’altra norma nel mirino delle proteste richiede di lasciare a riposo il 4% del terreno a chi ha più di 10 ettari di seminativi. Il 4% di terreno improduttivo comprende fossati, margini dei campi, siepi, alberi, boschetti, stagni, muretti. Tutto ciò che preserva la biodiversità e la bellezza dei paesaggi.
Questa norma va salvaguardata a ogni costo. Il riposo del terreno, assieme alle rotazioni, è essenziale per la fertilità e sta alla base dell’agricoltura da millenni. Un suolo che contiene meno del 2% di sostanza organica è degradato, anticamera della desertificazione.
In Italia circa l’80% dei terreni agricoli è sotto questa soglia. Lasciare a riposo una percentuale dei terreni è un’azione che fa bene alla terra e che viene finalmente pagata agli agricoltori. Perché affossarla?

Un’agricoltura diversa è possibile. Lo dimostrano i dati di crescita dell’agricoltura biologica, di cui l’Italia è tra i leader mondiali. La superficie agricola coltivata senza l’uso della chimica di sintesi nel 2021 ha raggiunto il 17% e punta al 25% nel 2027.
Bisogna sostenere le aziende affinché possano modificare il modello produttivo, passando dalle monocolture a pratiche agroecologiche, con più biodiversità, rotazioni delle colture, uso equilibrato dell’acqua.
L’agricoltura deve salvaguardare le sue fondamenta: la terra e chi la lavora. E invece si va nella direzione opposta e, di fronte alle proteste, il Green Deal viene affossato.

In questa sporca partita, chi perde? Quasi tutti: gli agricoltori, destinati a vivere di sussidi (finché ci saranno) per pagare pesticidi e fertilizzanti, i cittadini, che faticheranno a scovare cibi sani e di qualità, i giovani che erediteranno suoli desertificati e acque inquinate.
Chi vince? L’agroindustria e le multinazionali che controllano il mercato di semi, fertilizzanti e fitofarmaci.


(*)
– Serena Milano, segretario generale di Slow Food Italia

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L’amaca di sabato 10 febbraio 2024
Gli agricoltori non esistono
di Michele Serra

L’articolo di Serena Milano (Slow Food) pubblicato su la Repubblica aiuta a capire che “gli agricoltori” non esistono, non nella forma di una corporazione compatta e indistinta così come le manifestazioni di questi giorni possono far credere.
Esistono agricolture differenti, anche molto differenti: per dimensioni, per intenzioni, per metodi di coltivazione, per capacità di influenzare il mercato o di subirlo.
Se ne sa poco. Come scrivo con frequenza forse insostenibile (esiste anche una insostenibilità delle ripetizioni…), dei campi e della natura la società urbanizzata ha, nel suo complesso, perduto cognizione. Il cibo è ciò che si trova incellofanato nei supermercati.
La sua filiera, direi la sua struttura biologica, sociale e politica, è occulta oppure omessa, data per scontata. Ma come tutte le rimozioni, riaffiora.

E prima che “trattore selvaggio” e mucca Ercolina diventino l’ennesima caricatura mediatica di problemi complicati, e strutturali, vale la pena ricordare che il solo vero torto dell’assistenzialismo europeo (generosissimo) è stato, fin qui, premiare allo stesso modo il piccolo e il grande, il virtuoso e il vizioso, il curatore della salute dei terreni e il suo avido impoveritore.

Ciò che chiamiamo agro-industria (coltivazione intensiva e su larga scala di vaste superfici, con forte uso di chimica) non è uguale a ciò che definirei “agricoltura agricola”. Che ha tempi, cultura, mire produttive molto più lungimiranti, nel solco dell’idea (molto contadina) che la terra non è un limone da spremere, è una madre da assecondare, se si vuole che rimanga fertile.

Probabilmente con qualche errore e qualche forzatura, le nuove norme Ue cercano di favorire un’agricoltura pulita e soprattutto: lungimirante. Correggerle è lecito. Negarle è scellerato, e molto poco agricolo.

 

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