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Non solo Israele. Pensiamo anche alla Palestina

segnalato da Tano Pirrone e Sandro Russo

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Abbiamo ben chiare in mente la posizione e le parole del Papa sulla questione israeliano-palestinese. Le riportiamo qui di seguito da un’intervista del 29 gennaio 2024 a La Stampa:


Proponiamo quindi un articolo che troviamo bilanciato, pragmatico e molto incisivo sulle problematiche inerenti (di Fabio Nicolucci da Il Mattino di ieri): davvero necessario da leggere.

L’appello del Pontefice: «Siamo sull’orlo dell’abisso, ma la speranza per una tregua c’è». E sull’Intelligenza artificiale: «Sarà un suicidio se non avrà carattere umano»
estratto dall’intervista da Domenico Agasso – Da La Stampa del 29 gennaio 2024
https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2024/01/29/

“In un pomeriggio di fine gennaio, con il sole che scalda piacevolmente Roma, oltrepassiamo le Sacre Mura vaticane dalla Porta del Perugino e arriviamo a Casa Santa Marta. Papa Francesco accoglie La Stampa sorridente per una intervista esclusiva. Affronta tutti i temi, partendo dal fatto che il mondo è nel pieno della «guerra mondiale a pezzi», proprio il monito lanciato dal pontefice anni fa… «Mai mi stancherò di ribadire il mio appello, rivolto in particolare a chi ha responsabilità politiche: fermare subito le bombe e i missili, mettere fine agli atteggiamenti ostili. In ogni luogo. La guerra è sempre e solo una sconfitta. Per tutti. Gli unici che guadagnano sono i fabbricanti e i trafficanti di armi. È urgente un cessate il fuoco globale: non ci stiamo accorgendo, o facciamo finta di non vedere, che siamo sull’orlo dell’abisso».

Le scelte per la pace che tormentano Israele
di Fabio Nicoluccci – Da Il Mattino del 7 febbraio 2024

“Questo non è un governo, è un disastro nazionale” ha dichiarato qualche giorno fa Yair Lapid, il capo dell’opposizione israeliana al governo di estrema destra di Netanyahu, che dopo il 7 ottobre e l’attacco di Hamas è stato “allargato” per la conduzione della guerra al partito centrista “Kahol Lavan” (“Blu e Bianco” in ebraico, dai colori della bandiera nazionale) prima all’opposizione.

Un giudizio su cui riflettere, e non solo perché Lapid si trova curiosamente nella posizione in cui si trovò Giorgia Meloni rispetto al governo Draghi, quella di chi ha le mani libere per capitalizzare la sfiducia popolare verso la conduzione corrente, che potrebbe portare Lapid a stravincere nelle prossime elezioni politiche.

Ma anche e soprattutto perché, pur essendo un giudizio unanimemente condiviso – da cui si dissociano solo le destre estreme in occidente e in Israele, dove i sondaggi danno l’attuale governo in assoluta minoranza dovesse rivotarsi oggi – ciononostante rimane difficile far cambiare al suddetto governo e a Netanyahu la traiettoria “messianica” imposta dai coloni a cui si è accodato. E che sta impelagando Israele in un pantano politico e morale da cui per Israele sarà sempre più difficile uscire con il passare dei giorni.

Questa difficoltà a trarre le conseguenze politiche di tale stroncatura è parzialmente dovuta, naturalmente, alla guerra ad Hamas che Netanyahu non a caso vuole prolungare. Se non si discute di cosa succederà a Gaza e ai due milioni di disgraziati che abitano la Striscia, ovviamente non si può definire un obbiettivo concreto della guerra stessa, e di conseguenza per esempio discutere una tregua che permetta la liberazione degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas.

Ma tale difficoltà politica ha radici più profonde. Deriva certo anche dalla fragilità non solo parlamentare di cambiare il ventennale paradigma messianico del governo, dove la priorità idolatrica diventa la Terra – tutta la Terra biblica, e magari anche Gaza – rispetto alla sicurezza e salvezza del Popolo ebraico. Come sanno bene infatti lo Shin Bet e il Mossad, la sicurezza del Popolo può essere assicurata solo da un compromesso appunto sulla Terra con l’altro popolo che la abita.

Ma deriva anche dalla difficoltà di elaborare un trauma inedito nella
storia di Israele: il primo consistente attacco militare in Israele dal 1948. Un attacco assai più letale, tanto da far parlare di pogrom, delle incursioni dei fedain dell’OLP dalla Giordania o dall’Egitto degli anni sessanta che poi portarono alla Guerra dei 6 giorni.

Ebbene, questa difficoltà di elaborazione ha due nodi. Il primo, la

concezione del Nemico. Il secondo, forse conseguente, la concezione di cosa sia “Pace”.

Raffigurare Hamas come solo un branco di irrazionali terroristi sanguinari, da sbandare e sotterrare a colpi di bombe, può essere una consolazione ma è una grave sottovalutazione. Innanzitutto, piaccia o non piaccia, Hamas – anche per colpa di Israele – rappresenta una consistente parte del popolo palestinese. Quindi non è solo un gruppo di jihadisti, ma è uno Stato in un non-Stato. Ha una storia che data dal 1973, ed eliminare i suoi capi non basta. Dopo l’uccisione israeliana dello sceicco Yassin sulla sedia a rotelle, nel 2017 è venuto Yahya Sinwar. I suoi voti nel corso di studi universitari in ebraico durante i suoi 22 anni di prigionia in Israele per 4 ergastoli, sono altissimi. Così come straordinaria è la sua forza di volontà e carisma, secondo il suo Interrogatore dello Shin Bet. In più, sa che deve morire. Non gli importa. Non ha paura di questo. Il suo obiettivo, che ha già raggiunto, è che nulla sarà come prima.

Al contrario dei ragazzi e ragazze soldati di Israele, che giustamente ora sempre più vogliono pensare al futuro e al raggiunto pacifico benessere, e non al presente né tantomeno al passato. E ciò si vede sul terreno, dove l’offensiva dell’IDF viste le forze in campo è tutt’altro che uno schiacciante successo in termini militari.

Questa concezione di un nemico esistenziale perché irrazionale porta al secondo punto, cosa sia “Pace”. Per sconfiggere veramente questa moralistica, dunque impolitica, e alla fine suicidaria visione della destra israeliana di inevitabile “guerra infinita” – la cui illusione di efficacia è miseramente crollata il 7 ottobre – occorre infatti contrapporne un’altra altrettanto potente. Che non può venire solo dall’esterno, da Biden per intenderci. Ma deve convincere la maggioranza del popolo israeliano. Ed è questa la lotta in atto oggi tra la “nuova Israele” laica e sionista di Lapid, Yair Golan, Gadi Eisenkot, Benny Gantz, e l’Israele messianica dell’estrema destra.

Al momento la “nuova Israele” fa leva sul “surrogato” della salvezza degli ostaggi per scalzare questa deriva messianica e moralistica. Basterà probabilmente per cacciare Netanyahu, che è un cadavere politico. Ma non per il dopo.

Da Oslo in poi, la sinistra israeliana è sembrata propendere per una

concezione “irenica” del proprio nemico. I cattivi erano solo i loro leader, il popolo era buono. Era ingannato. Bastava fargli vedere quanto fosse umano e idealista il popolo israeliano, per fare lapace e riconoscersi. Il problema è che nessun popolo è così. Nemmeno lo straordinario popolo israeliano, come dimostra l’assassinio del premier di Israele Rabin nel 1995 per mano di un altro ebreo israeliano di destra. Un trauma rimosso e non elaborato. Che dunque ritorna e da cui Israele dovrà ripartire.

L’Altro, come del resto il popolo israeliano, non è infatti un monolite unico, nemmeno in senso religioso o etnico. Lo scontro tra chi è disposto a riconoscere l’Altro e chi no, attraversa i due popoli. Lo scontro non è tanto tra i due popoli, bensì interno ai due popoli, così come non è tra le civiltà bensì all’interno di esse.

La pace si fa non quando si è in pace con l’altro, bensì quando è inutile combattere ancora. La pace non è un atto irenico bensì necessario, soprattutto a sé stessi. La pace è all’inizio un atto politico egoistico, non uno slancio disinteressato. E non richiede né perdono né benevolenza. Presuppone la costruzione di un consenso interno. Più facile su basi realistiche e non idealistiche, impossibile su basi moralistiche.

Per fare politica non c’è bisogno di ritenere il nemico moralmente degno, questo è un problema dell’altro popolo. Basta che sia rappresentativo. Ed Hamas lo è, soprattutto nel mondo arabo, al contrario dell’ISIS. Se si saprà ripartire da questo, il dramma del 7 ottobre non sarà stato invano.

 

[Di Fabio Nicolucci – articolo pubblicato su Il Mattino di mercoledì 7 febbraio 2024])

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