Antropologia

Into the wild/4. Berserk, il guerriero folle dalla mitologia alle città americane

proposto da Sandro Russo: “Com’è stato che natura e uomo ‘civilizzato’ hanno preso strade diverse”.

.

Il Manifesto. Cultura. Into the wild /4
Il caso dell’orsa JJ4 e il suo contrastato rapporto con l’altra specie – quella umana – ha dato l’avvio a questa serie di pagine culturali che indagano la relazione con il selvatico da diverse prospettive. C’è quella «reale» (che comunque sconfina nell’immaginario), e quella della finzione letteraria, come il puma di Hollywood, o storie dai tratti leggendari: dalle fiabe alla scoperta (spesso non veritiera) dei «bambini delle foreste», 
per l’intima familiarità con la selva dello scrittore uruguayano Quiroga, passando – in questo articolo – alle simbologie risvegliate dai lupi alle porte della città, E poi ci sono le orse di Artemide, i meravigliosi incontri sottomarini, il desiderio di tornare «indigeni», l’empatia con animali e le fantasie equine di Turgenev a Tolstoj. Senza dimenticare le commistioni di uomini e maiali irlandesi e l’utopia vegetale di riunire diversi mondi in un unico giardino assai «indisciplinato».

 

Uomini e Natura. Into the wild / 4.
Berserk, il guerriero folle dalla mitologia alle città americane
di Guido Caldiron

Come l’eredità selvaggia della tradizione scandinava riemerge nel fascino per il sangue della cultura Usa. Forse è metà uomo e metà orso, difende la comunità dai nemici, ma riporta a casa con sé la violenza. Cinquecento anni prima di Colombo furono i vichinghi a «scoprire» il Nuovo Mondo. Si sono lasciati alle spalle pochi reperti, ma una cospicua traccia di brutalità. Dal mito della frontiera ai serial killer, dai «mass murder» ai reduci del Vietnam stile Rambo. Un intero immaginario costruito sul confine sottile tra normalità e furia

Alexander Skarsgård in «The Northman» (2022)

«Un delitto commesso in Norvegia nel X secolo, ecco il primo anello nella catena di eventi che condussero alla scoperta dell’America da parte degli scandinavi». Le parole dello studioso britannico Frederick J. Pohl, autore di un pionieristico studio che fin dal titolo evidenziava come sul tema non si sia mai raggiunta l’unanimità tra gli storici – I vichinghi e la scoperta perduta (1970) -, evidenziano quale sia il possibile lascito che una pagina dimenticata della Storia ha fatto alla moderna società statunitense.

Malgrado il dibattito continui ancora oggi, in pochi hanno ormai dubbi sul fatto che cinquecento anni prima di Cristoforo Colombo, siano stati i corsari scandinavi, i vichinghi, a mettere tra i primi piede sul continente americano – preceduti per altro da dei monaci irlandesi -, sbarcando tra la Baia dell’Hudson e Cape Cod, lungo una vasta area costiera oggi compresa tra il Canada e gli Stati Uniti, per poi spingersi verso sud come verso l’interno, più o meno nei territori che ora appartengono al Massachusetts e al Minnesota.
È in una località di quest’ultimo Stato del centro del Paese, Solem, che nel 1898 fu scoperta «la pietra runica di Kensington», dal nome di un antico insediamento della zona, novanta chilogrammi di roccia scolpita ricoperti di rune su due lati: una delle testimonianze della possibile presenza dei vichinghi. Certo, come ribadiva ancora alla fine dell’Ottocento un’inchiesta dettagliata dell’Harper’s Magazine, molto probabilmente «gli scandinavi scoprirono l’America senza averne l’intenzione, da quei semplici avventurieri che erano. Nella loro impresa non v’è nulla che possa essere raffrontato all’eroico gesto di Colombo quando, concepito con chiara determinazione e cosciente dignità un grande disegno, fece vela per attraversare un oceano sconosciuto».

Al netto degli errori di calcolo che furono alla base dell’impresa del navigatore genovese, che come è noto raggiunse l’America pensando di trovarsi in Asia, è molto probabile che, per i vichinghi, le cose siano andate più o meno così.
Tra Storia e leggenda, le ricostruzioni che sono arrivate fino a noi parlano di un principe norvegese, Thorvald, che prima dell’anno Mille fu scacciato dalla sua terra per aver infranto una delle prime leggi di quella società: aveva commesso un omicidio tra la sua gente. Presso un popolo abituato al saccheggio e alle stragi in guerra, portare quella stessa violenza «in casa» era considerato intollerabile.
La punizione, valutata come ancor più grave della morte, era espellere il colpevole e la sua famiglia dalla comunità, d’ora in poi sarebbero stati degli «stranieri». La meta scelta fu l’Islanda, che gli scandinavi avevano iniziato a colonizzare da un centinaio d’anni. Da qui, il figlio del principe, Erik il Rosso, macchiandosi a sua volta di un delitto compiuto in famiglia, sarebbe stato costretto ad andarsene e dopo la Groenlandia, forse per sfuggire ad un tempesta, avrebbe raggiunto per caso la costa del Nord America dando inizio alla breve «colonizzazione» vichinga di cui poche tracce sarebbero sopravvissute in seguito.

Eppure, c’è chi sostiene che per quanto rapida e superficiale sia stata la presenza degli scandinavi nelle terre americane, una traccia, e non certo secondaria, potrebbero averla lasciata. Una traccia, che seguendo quel filo incerto ma non per questo meno intrigante che lega Storia, leggenda e il modo in cui prendono forma i miti della cultura popolare, rimanda inesorabilmente a quella linea di sangue che fu, come detto, all’origine della «scoperta» stessa.

Ancora oggi negli Stati Uniti si è soliti definire con il termine di berserk chi si macchia di atti violenti particolarmente ripugnanti o efferati: i serial killer, i responsabili di stragi, i «mass murders», quanti imbracciano un fucile d’assalto e entrano in una scuola o un centro commerciale e cominciano a sparare all’impazzata.
Non si tratta di una parola banale: nella tradizione norrena il berserk, figura che compare in molte saghe della mitologia scandinava e germanica, è un guerriero-sciamano che combatte indossando la pelle di un orso, un lupo o una renna e in uno stato di trance che gli deriverebbe proprio dall’anima degli animali che ha ucciso. Nella sua figura i confini tra l’uomo e la bestia si perdono e la sua ferocia, ispirata al volere di Odino, non conosce limiti.
Allo stesso modo, il berserk è una sorta di «guerriero-folle» che viene esaltato in battaglia ma temuto quando torna la pace, anche perché non si è certi che sappia maneggiare o controllare davvero la propria furia. E sia in grado di sottrarsi alle lusinghe e alle insidie frutto della lotta in corso tra le divinità: il malvagio Loki, prima alter ego e quindi antagonista irriducibile dello stesso Odino.

In una società dove la violenza gioca un ruolo importante, dove il mito della frontiera ha reso mutevoli nel corso del tempo, e a seconda dello spazio che ne era interessato, le regole del gioco e chi era destinato a farle rispettare, dove la guerra, si pensi soltanto all’eco ancora presente di quella del Vietnam, ha accompagnato la vita quotidiana anche in tempo di pace, interrogarsi su tale figura di confine risulta tutto fuorché banale.

In molti hanno utilizzato l’analogia con il berserk per parlare della generazione che ha «riportato» la guerra in casa dopo la tragedia del conflitto nel Sud-est asiatico: Kirby Farrell ha parlato in proposito di un Berserk Style in American Culture (Palgrave, MacMillan, 2011), mentre Kathleen Belew ha letto nei termini di un Bring the war home (Harvard University Press, 2018) l’ascesa delle culture paramilitari e di estrema destra nell’era post-Vietnam.
Del resto, che una delle più popolari figure del cinema americano degli ultimi decenni, John Rambo, interpretato dal 1982 al 2019 da Sylvester Stallone, assomigli a un berserk è piuttosto evidente.
«Non è finito niente. Niente! Non è un interruttore che si spegne!», spiega, a proposito della guerra, il reduce dal Vietnam in un celebre dialogo del primo film della serie, e aggiunge: «Per me la vita da civile non esiste». Una volta tornato alla normalità, il guerriero-folle non sa più quale sia il proprio ruolo, e cosa farsene della violenza spesa per difendere la società.

Gli argomenti, e le icone della cultura popolare, sono, come è noto, tutt’altro che innocenti, esprimono retoriche potenti, «visioni del mondo» in grado di plasmare le generazioni. Così, il sociologo francese Denis Duclos che ha letto il fascino esercitato dalla violenza in seno alla società americana all’insegna di una sorta di mito fondativo – Le complexe du loup-garou (La Découverte, 1994) – sottolinea come questo insistere sul sangue, non sia «solo un effetto del mercato della cultura industrializzata, bensì una conseguenza logica delle convinzioni fondamentali» che albergano nel Paese.

Per Duclos, che analizza in parallelo i dati sulle violenze efferate compiute negli Stati Uniti, a partire dalle vicende dei più noti serial killer, e il côté hollywodiano del racconto della brutalità diffusa, il riemergere del berserk rimanda a quanto delle antiche leggende celtiche, germaniche e scandinave ha contribuito a forgiare la cultura anglosassone contemporanea.
«I temi prediletti di questo universo “nordico” – spiega lo studioso – erano infatti le simmetrie natura/cultura (violenza/civiltà), presentando perciò dei tratti stranamente analoghi a quelli oggi all’opera nell’area anglo-americana».
Allo stesso modo, «la mitologia medioevale germanica insisteva già sulla precarietà essenziale del mondo civilizzato, della città divina di Asgard: il crepuscolo degli dei, il ragnarök, il giudizio finale, era sempre temuto e previsto. Nella saga, il grande lupo che corre nelle paludi, Fenrir, si libera dai suoi legami per inghiottire gli dei, mentre tutti i tipi di mostri infernali salgono in superficie». E, soprattutto, ciò che «ritorna è anche una traduzione del rischio che il berserk, il guerriero vestito di pelle d’orso, si scateni contro i suoi».

Se, come insegna la cultura della frontiera sulla quale gli Stati Uniti hanno costruito il proprio sviluppo interno nel corso degli ultimi trecento anni, facendo pagare alle popolazioni indigene un prezzo drammatico, il confine tra il mondo selvaggio e quello civilizzato può essere oggetto di un costante tiro alla fune, c’è il rischio concreto che tra i partecipanti più d’uno rischi di sbagliare campo. O, in altri termini, come ha scritto Jonathan Franzen in Libertà (Einaudi, 2010), che «la personalità suscettibile al sogno di una libertà illimitata (sia) anche una personalità incline alla misantropia e alla rabbia, quando il sogno si inacidisce».
I berserk che popolano l’immaginario americano stanno probabilmente lì a ricordarcelo.
Come anche il famoso «sciamano» vestito di pelle di lupo ripreso mentre partecipa all’assalto a Capitol Hill il 6 gennaio del 2021.

[Into the wild / 4. – Continua]

 

 

Clicca per commentare

È necessario effettuare il Login per commentare: Login

Leave a Reply

To Top