Dibattito

Quando si dice ‘famiglia’

proposto dalla Redazione

 .

Diritti
Giulia e Giulio famiglie coraggio
di Luigi Manconi

 

A oltre mezzo secolo dalla pubblicazione di La morte della famiglia dello psichiatra di origine sudafricana David Cooper (1931-1986 – ndr), alcuni giorni fa, in un breve arco di tempo, due eventi pubblici hanno fatto emergere quale possa essere tuttora il ruolo di un istituto tradizionale come la famiglia. Un istituto la cui crisi è acutissima da decenni e che conserva, tuttavia, una irriducibile vitalità.

Pur se incomparabilmente diverse e lontane, l’ordinanza del rinvio a giudizio dei quattro presunti responsabili della morte di Giulio Regeni e le parole della sorella e del padre di Giulia Cecchettin confermano come il legame familiare possa ancora costituire una energia potente; e sia in grado talvolta di giocare un ruolo cruciale nella vita sociale.
È indubbio, infatti, che sia stata l’intelligente tenacia dei genitori di Regeni a rappresentare il fattore determinante di questa svolta finalmente positiva nella vicenda diplomatico-giudiziaria originata dall’efferato assassinio del ricercatore italiano al Cairo; ed è altrettanto certo che il comportamento di Elena e di Gino Cecchettin abbiano avuto una funzione essenziale nel determinare un salto di qualità nella sensibilità collettiva verso i femminicidi.

In queste due vicende, come in tante altre di cui si dirà, si evidenziano alcuni passaggi ricorrenti: un lutto straziante, che diventa trascrizione pubblica del dolore fino a tradursi in questione collettiva, facendo del vincolo di sangue una essenziale risorsa relazionale e sociale.

Se si torna indietro nel tempo e si considera la strage di Ustica (1980), si osserverà come, già in quella vicenda, la sequenza prima indicata – da lutto privato a dolore pubblico – abbia accompagnato la formazione e l’attività dell’Associazione dei parenti delle vittime di quella tragedia aerea. Ma c’è un lungo e dolente corteo di familiari – e in specie di donne – che hanno attraversato, con grande dignità, questo quarantennio di storia nazionale, lasciando un segno indelebile nella vita pubblica. Penso a Patrizia Aldrovandi, Lucia Uva, Ilaria Cucchi, Claudia Budroni, Domenica Ferrulli e altre ancora: madri, sorelle e figlie di persone morte mentre si trovavano nelle mani di appartenenti alle forze di polizia. Mi riferisco, poi, ai genitori di Andrea Rocchelli e di Mario Paciolla e ai familiari di Luca Ventre; ma anche a quelli di Mauro Guerra e Matteo Tenni. Tanti nomi e cognomi. E molti altri che dimentico.

In ciascuna di queste storie sono i familiari a svolgere un ruolo pubblico di interlocuzione esigente e rigorosa con l’amministrazione della giustizia, a intervenire sulla sfera mediatica e su quella politica, ad attivare la mobilitazione dei cittadini.
Per fare ciò, rinunciano a vivere nella dimensione più intima una parte del proprio lutto per affidarla alla sensibilità di quanti, pur estranei e lontani, se ne vogliano far carico.
È così che quella sofferenza privata si fa interesse pubblico.

Ma torniamo all’inizio. Se è vero com’è vero che la famiglia – in particolare quella espressa dalla società borghese – è in grave crisi da almeno un secolo, non si può ignorare che il suo spirito, ma anche il vincolo di sangue che ne costituisce la matrice, resistano nel tempo: e in circostanze eccezionali, come sono le tragedie prima ricordate, sembrano rinnovarsi e acquisire forza.
Se ne può dedurre che la disgregazione delle forme tradizionali di organizzazione familiare e la radicale trasformazione dei rapporti al suo interno (quello tra genitori e figli e quello tra maschi e femmine), parallelamente all’erosione del principio di autorità, hanno portato al declino del concetto classico di Famiglia, tanto più quando affiancato a Dio e a Patria, ma non hanno creato il deserto.
All’opposto hanno prodotto una pluralità di famiglie, dove il legame di sangue è attenuato o assente e dove i generi e i ruoli sono mutevoli; e dove le forme di organizzazione sono le più diverse.
Le famiglie cosiddette arcobaleno, perciò, non rappresentano una eccentricità esistenziale, bensì uno tra gli effetti di quella crisi e, allo stesso tempo, un suo antidoto.
E anche queste nuove forme di integrazione parentale possono essere capaci di esprimere legami solidi e intensa solidarietà. Ma questo è un altro discorso.

Per tornare alle due vicende da cui ho preso spunto, sottolineo un altro elemento che nonostante tutte le rilevanti differenze le avvicina. In entrambe il corpo delle vittime ha assunto un grande significato non solo emotivo: il corpo sfigurato dalle torture messe in atto dagli uomini di un regime dispotico e il corpo lacerato e vilipeso dalle coltellate di un maschio disperato e impotente.

[Di Luigi Manconi, da la Repubblica di domenica 10 dicembre 2023]

1 Comment

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  1. Sandro Russo

    11 Dicembre 2023 at 05:23

    Il Cinema occidentale ha esplorato in lungo e in largo il micro-universo della famiglia, con uno sguardo sostanzialmente critico, fino al corrosivo. Mi viene in mente il danese FestenFesta in famiglia (Festen) è un film del 1998 scritto e diretto da Thomas Vinterberg, vincitore del premio della giuria al 51º Festival di Cannes – [Wikipedia].

    Differente l’approccio orientale al tema. Obbligatoria la citazione storica del cinema di Ozu [Yasujirō Ozu; Tokyo, 1903 – 1963) è stato un regista e sceneggiatore giapponese. Esponente del cinema realista, nei suoi film riassume la tradizione e la modernità del suo paese con una dialettica precisa – Wikipedia]
    Ma se penso a un regista tuttora in attività che ha messo al centro del sua filmografia e della sua poetica l’idea di famiglia, quello è Kore-eda, conosciuto da noi per diversi premi ottenuti a importanti rassegne internazionali

    [Hirokazu Kore-eda (Tokyo, 1962) è un regista, sceneggiatore e montatore giapponese. È centrale nel suo cinema il tema dei legami personali e di quelli familiari in particolare. Nei suoi film ha affrontato anche i temi della memoria e dell’elaborazione del lutto – [Wikipedia].
    Notavo, nella filmografia completa riportata dal web (17 film al suo attivo, finora) che fa parte per me del genere di registi “conosciuti e amati”.
    Da quando i suoi film hanno cominciato ad essere proposti in Occidente (segue elenco in ordine temporale), ne ho visto la maggior parte (quelli con l’asterisco)
    * Father and Son (Soshite chichi ni naru) (2013)
    * Little Sister (Umimachi Diary) (2015)
    * Ritratto di famiglia con tempesta (Umi yori mo mada fukaku) (2016)
    Il terzo omicidio (Sandome no satsujin) (2017)
    * Un affare di famiglia (Manbiki kazoku) (2018)
    * Le verità (La Vérité) (2019)
    * Le buone stelle – Broker (Broker) (2022)
    Kaibutsu (2023)
    Un po’ per la fascinazione che ha su di me il mondo orientale (India e Giappone, soprattutto, molto meno la Cina); un po’ per l’idea del valore della famiglia non di sangue, ma di aggregazione elettiva, declinata in vario modo da Kore-eda, molto moderna e precorritrice. Uno non se lo aspetterebbe, in Oriente. Da noi è venuta agli onori delle cronache di recente, dal sommerso dove queste tendenze incubano, per le vicende legate alla morte di Michela Murgia.

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