Botanica

Quando l’ultima luna di settembre ti porta al cinema

proposto da Sandro Russo

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Non so se sarei andato al cinema ieri sera, se non avessimo recentemente scritto, sul sito, dell’ultima luna di settembre, la luna del raccolta (leggi qui).
In questo caso la sequenza degli eventi è stata: notare il titolo sulla pagina dei film del giornale, andare a cercare su internet di cosa si trattava, scoprire che era un film dalla Mongolia; trovare una recensione “attirante” su www.mymovies.it; prendere la moto (ero a Roma) e andare di corsa.
Non so cosa mi attiri tanto della Mongolia e dei film ambientati in quelle steppe lontane; ho scritto nel mio passato da tossicologo di alcune tradizioni mongole che riguardavano le droghe (1) e della vita nelle yurte, sorta di capanne di tronchi ricoperte di pelli di animali, con una stufa centrale, pur senza esserci mai stato. La tradizione è documentata nel passato e il dato farmacologico è corretto, ma la rappresentazione è di fantasia.
Un film che ricordo, con la stessa ambientazione è La storia del cammello che piange (2003) girato da Luigi Falorni e Byambasuren Davaa in un angolo remoto della Mongolia


Forse quello che mi affascina – di quel luogo e di quella cultura pastorale (popoli nomadi dediti alla pastorizia e all’allevamento di cavalli) è l’idea di un mondo fuori dal tempo, non ancora sopraffatto dal cosiddetto progresso.
Non chiedetemi cosa c’entra Ponza con la Mongolia: assolutamente niente! …ma le belle storie, raccontate bene, sono sempre interessanti e allargano gli orizzonti.
Quelli della Mongolia sono veramente vasti!

Che lavoro fai? – chiede il bambino
– Sono il direttore di un albergo a cinque stelle

– Solo cinque?
[Da uno dei rari dialoghi di un film dai molti silenzi]

L’ultima luna di settembre
Un’opera prima che mostra le radici culturali del regista e riflette sul tema della genitorialità.
recensione di Giancarlo Zappoli – del 30 giugno 2023 – da www.mymovies.it

Tulgaa è da tempo andato a vivere in città lasciando il villaggio nella campagna della Mongolia. Una telefonata lo avverte che il patrigno sta per morire e lui lo raggiunge. Dopo il decesso mantiene la promessa fattagli di portare a termine il lavoro di fienagione. Nei campi lo raggiungerà Tuntuulei, un ragazzino decenne che vive con i nonni. I due, poco a poco, impareranno a conoscersi.

Amarsaikhan Baljinnyam, alla sua opera prima, offre l’occasione di conoscere nel profondo un mondo che raramente compare sui nostri schermi.

Lo fa a partire da un romanzo di T. Bum-Erden scrivendo la sceneggiatura, dirigendo e interpretando il ruolo di Tulgaa avendo alle spalle una consolidata carriera di attore. Ha fatto così totalmente propria questa storia che chiede allo spettatore una disponibilità che poi sa ricompensare. Domanda cioè a chi guarda di dimenticare i ritmi e i tempi della narrazione cinematografica occidentale per lasciarsi immergere in un’area antropo-geografica in cui la dimensione temporale assume modalità profondamente diverse.

È in fondo ciò che deve fare il protagonista nel momento in cui lascia la città (scopriremo verso la fine del film qual è la sua professione) per ritrovare nella yurta in cui è cresciuto (e nello spazio sconfinato in cui è immersa) un modo di vivere (e di morire) che forse aveva pensato di potersi lasciare per sempre alle spalle. È un luogo in cui bisogna stare in piedi su un cavallo in cima a una collina per poter sperare di avere abbastanza campo per fare una telefonata così come le abitazioni sono davvero distanti le une dalle altre. Questo lascia ampi margini di solitudine che è poi la dimensione in cui Tulga si immerge per portare a termine il lavoro iniziato dal patrigno.

Si tratta però di una solitudine di breve durata perché di lì a poco l’arrivo di Tuntuulei cambierà profondamente non solo i ritmi della sua giornata ma anche il suo modo di guardare agli altri. Il ragazzino nasconde, dietro alla vivacità e anche a quel tanto di sfrontatezza che esibisce, una serie di sofferenze che cerca di esorcizzare raccontando, in primis a se stesso, una realtà immaginaria. Baljinnyam, grazie a questi due personaggi, riesce a mostrare la propria terra e le sue radici culturali ma anche a riflettere sul tema della genitorialità.

Non è un caso che il film si apra con Tulgaa che riceve un messaggio vocale dalla donna che ama che gli rivela di avergli sino ad allora nascosto il fatto di avere un figlio. Lui a sua volta deve accorrere al capezzale di chi lo ha allevato senza essergli padre per poi sviluppare un rapporto che si apparenta alla genitorialità con Tuntuulei che ha i nonni come solo modello di riferimento adulto.

In un film che non si avvale di musiche che non siano diegetiche (cioè all’interno dell’azione) la partecipazione emotiva viene creata dagli sguardi, dai piccoli gesti, dalla disponibilità reciproca (ad esempio: ìl ragazzino che porta l’acqua a Tulgaa mentre lavora e lui che lo accompagnerà alla festa in cui i bambini lottano). Il titolo, anche nella versione italiana, è più che mai indicativo perché quell’ultima luna di settembre segna la fine dell’attività di fienagione e lo spettatore è portato a chiedersi che cosa ne sarà del rapporto sempre più strettamente affettivo tra i due. La risposta che Baljinnyam ci dà non è di tipo consolatorio perché vuole lasciarci uno spazio di lettura libera. Cosa accadrà dopo lo decideremo noi.

Note

La yurta  è la tipica abitazioni a tenda delle steppe della Mongolia. In quelle regioni è ancora diffuso l’uso dell’Amanita muscaria per finalità divinatorie e stupefacenti. Viene privata degli effetti collaterali sgradevoli attraverso l’estrazione urinaria (compito delle donne!)

(1) – Nella yurta ristagna un’aria densa, impregnata di fumo di legna e dell’odore del latte di pecora che sobbolle sul corpo laterale di una grande stufa di terracotta. Una lampada a olio spande una luce fioca, che tremola insieme ai fruscii del vento. Fa freddo, di fuori, e la terra è gelata.
La donna, con il capo coperto da più giri di una sciarpa di lana che le lascia scoperti solo parte del volto, dagli occhi alla bocca, rimesta nel paiolo più grande, e con gesti misurati versa dall’alto, con un bricco, il latte bollente nella grande teiera di metallo a becco.
Dall’altra parte della grande capanna, separata dalla cucina da una cortina di pelli di cammello conciate, viene il vocio degli uomini, scoppi di risa, ogni tanto delle urla.
La donna riconosce la voce del suo uomo, tra le altre; lui la tratta con rudezza, in presenza di estranei, ma non è cattivo con lei.
Lavora duramente, come tutti del resto, in quella terra inospitale e sono così rari i momenti di pausa.
Questa sera è il loro turno di ospiti, e tocca a lei fornire il materiale per la cerimonia culminante della serata.
Gli uomini sono dal pomeriggio a fumare, a bere e a discutere; ha già portato loro più volte il thè al latte dolcissimo, ma ora stanno diventando impazienti. A lei tocca fare la sua parte, in quelle occasioni…
Ora il peggio è passato. Ha già masticato e rimasticato i funghi secchi, amarissimi, che le hanno contratto lo stomaco e provocato conati di vomito; ma ha imparato a dominarli. Come le altre volte il suo volto è diventato pallido e si è coperta di sudore freddo. Poi la divinità si è manifestata dentro di lei; ha cominciato a vedere le cose sdoppiarsi, cambiare forma e colori. Ha girato in tondo e gridato per un tempo che non saprebbe dire. All’improvviso si è bloccata, come paralizzata da un indescrivibile stupore…
Tra un po’ riprenderà coscienza di sé, senza ricordare nulla di quanto le è accaduto.
Si guarda in giro stupita; adesso le toccherà rimettere tutto a posto. Sente ancora le voci alterate degli uomini venire di là della tenda.
Avverte di essere entrata in un mondo non suo: ne serba l’impressione, ma non il ricordo. Sente un peso nel basso ventre; tra un po’ la divinità che l’ha posseduta vorrà uscire.
 Ora è il momento.
La donna di accovaccia su un recipiente di metallo e l’urina, a lungo trattenuta, esce da lei come una liberazione. Gli uomini di là stanno aspettando…

Amanita muscaria è un fungo molto comune, anche nei nostri boschi, dall’aspetto caratteristico: fiocchi cotonosi bianchi sul cappello rosso, come i funghi delle favole. L’Amanita muscaria, a parte l’aspetto attraente, è un fungo controverso. Da alcuni è ritenuto senz’altro tossico, responsabile di sintomi simili a quelli indotti dalle solanacee come Atropa belladonnaDatura stramonium Hyosciamus niger (Sindrome anticolinergica).

[Di Sandro Russo, da Mag O, il magazine della Scuola di Scrittura Omero di Roma:
https://www.omero.it/2018/10/07/piante-tossiche-medicamentose-allucinogene-storie-tra-botanica-e-antropologia-4/ ]

(2) – Ricordate sempre, bambini – diceva Rosanna Migliaccio, la risento ancora – cammello: due ‘elle’ e due gobbe!

1 Comment

1 Comment

  1. Gianni Sarro & Sandro Russo

    6 Ottobre 2023 at 18:08

    Commenti e scambi tra Gianni Sarro e Sandro Russo

    G. S. – Il cammello che piange lo recensii all’epoca. Un gioiellino.
    S. R. – Ricordo anch’io! Un film in progress, che mentre lo giravano non sapevano come sarebbe andato a finire… Se il cammellino sarebbe morto di fame o se la madre lo avrebbe riconosciuto… E neanche ve lo dirò! SSQR (Sono Sadici Questi Rustici!)
    Meglio: SPQR (Sono Puzzoni Questi Rustici!)
    G. S. – Io non me lo ricordo come finisce (in genere non lo ricordo quasi mai), quindi non posso aiutarvi…
    S. R. – Io lo potrei sapere… Certo, pagando il giusto… (vi mando l’IBAN?)
    G. S. – Il trailer, tanto per invogliare o far desistere!

    https://youtu.be/WiHTFLqEHqs?si=72_QPRrGkHfVlP_G

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