Architettura

Quali risorse idriche per Ponza?

di Francesco De Luca

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Ho partecipato ieri sera (8 settembre) alla presentazione del libro di Arturo Gallìa (qui l’invito alla presentazione). Lo ringrazio per avermi sollecitato queste riflessioni, che esterno.

C’è da dire subito che le  ‘bettoline’ ovvero le navi cisterna non sono le risorse idriche che accompagneranno il futuro dell’isola. E non lo possono perché di acqua potabile Ponza e la sua ‘industria turistica’ ne avranno bisogno sempre di più. Mentre, è risaputo, che la ricchezza idrica della nostra regione (come di tutta l’Italia) va assottigliandosi. A maggior domanda non sarà automatica una maggior offerta.

Qualche avvertimento può venirci dalla storia, sia quella borbonica sia quella romana.

L’isola, Ponza, è sempre stata carente di acqua sorgiva e, pur tuttavia, i Romani la fecero diventare il porto che approvvigionava la flotta navale. Come ? Incanalando l’acqua piovana in enormi cisterne e, attraverso un sistema di decantazione naturale, renderla potabile.

I Borbone, nel 1700, per realizzare la colonizzazione dell’isola, copiarono il progetto romano. In parte, utilizzando le cisterne romane (quelle che il tempo aveva preservato) e, in parte, sfruttando l’incanalamento dell’acqua piovana: tutta quella caduta sui tetti veniva incassata in cisterne. Alcune condominiali (nel centro urbano), altre familiari. Inventandosi sistemi di purificazione: immergendo calce viva o lasciandovi sguazzare le anguille.

Dal dopoguerra (1948) è divenuto insostituibile il servizio delle ‘bettoline’ per aiutare la popolazione isolana a sopravvivere

L’acquedotto urbano, che si realizzò negli anni ‘60 e ‘70, trovò nelle cisterne romane un aiuto provvidenziale. Sicché l’acqua delle bettoline, caricata in continente, viene scaricata nei serbatoi romani (cisterne), da cui, attraverso la rete urbana, viene portata nelle case. Dove, qui, è avvenuto un mutamento esiziale. Perché le cisterne  casalinghe (dette piscine), che la quasi totalità delle case ponzesi possedeva, sono state o rese non utilizzabili o sono divenute case per gli affitti estivi.

La necessità dell’acqua potabile in casa però non è venuta meno tanto è vero che su ogni tetto compare un serbatoio, caso mai dovesse venir meno quella della rete urbana. La qual cosa non avveniva di rado, anzi. Avviene tuttora.

Con queste avvedutezze che la storia isolana ci tramanda si è pensato di affidare il futuro isolano ad un dissalatore. Per inciso c’è da ricordare che negli anni ’80 si pensò ad un acquedotto che unisse San Felice Circeo con l’isola. Ma la cosa non andò in porto.
Il dissalatore presto sarà installato a Cala dell’Acqua e, in modo provvisorio, si dice, soddisfarà il fabbisogno d’acqua degli isolani.

La mia mancanza di conoscenza mi fa sorgere molti interrogativi:
1  – non si avrà più bisogno dell’acqua delle bettoline?
2  – è “provvisorio” il dissalatore perché il “definitivo” è in mente dei?
3  – la popolazione avrà benefici sulla bolletta, pur se il dissalatore abbisogna di tanta energia elettrica?
4  – lo smaltimento della salamoia non turberà l’equilibrio biologico del fondale marino?

Sono domande da ignorante a cui le esperienze passate insinuano risposte a danno totale della popolazione e a vantaggio esclusivo delle imprese impegnate. Nessun equilibrio natura-popolazione; nessun bilanciamento sfruttamento-sostenibilità; scontro aperto fra cultura e ambiente.

Non sono prevenuto, sono desideroso di conoscere le risposte per aggiornare la mia opinione.

E poi ancora:
–  è possibile pensare di verificare le ‘piscine’ familiari attualmente disponibili per renderle fruibili?
–  è pensabile incentivare la dotazione di ‘piscine’ con controlli severi su paesaggistica ed edilizi?
–  è pensabile studiare questa problematica con Università?

Mi fermo se no do l’impressione di una ignoranza abissale. La sensazione però è che ho ragione a non essere tranquillo.

Immagine di copertina: da https://frammentidiponza.blogspot.com/

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