Una data che segna la storia di un Paese è anche un giorno qualunque – il pomeriggio di fine estate in un hotel, settembre ’43; le cameriere “dal grembiulino bianco” che servono la cena, i ragazzi che entrano e escono in ansia dalla porta girevole. La data in cui arriva una notizia che cambia le sorti del mondo è anche quello di una partita a tennis fra due ragazzine che stanno diventando grandi. Una canzone che riempie l’aria, una scatola di cioccolatini che viene aperta, l’odore di minestra in cucina. E gli oggetti delle nostre vite, delle nostre stanze – testimoni muti ma partecipi degli eventi e dei destini, privati e pubblici: piatti spaiati di porcellana, brocche dal manico rotto, “letti ampi come barche per affrontare l’oceano della notte”, certe tazzine da tè che hanno tremato più di certi cuori.

Nei suoi romanzi e racconti Rosetta Loy, che si è spenta nella sua casa di Roma a novantuno anni, ha ripercorso più volte lo stesso tratto di storia italiana: la stagione che più ha segnato la generazione dei nati nei Trenta, un’infanzia coincisa col periodo più brutale del fascismo – le leggi razziali, la guerra – , un’adolescenza che somiglia alla speranza incerta di un Paese di macerie appena liberato. Ma è una Storia come addomesticata: narrata da dove riescono a vederla, a spiarla, i non protagonisti, letteralmente affaccendati, presi dalle loro cure quotidiane.

Donne, bambini, adolescenti, vecchi: gli esclusi da qualunque fronte, dalle decisioni politiche, dai traffici dell’economia. Tutti coloro che restano a presidiare le case, ad amare le sere invernali con la pioggia che riga i vetri, le gigantesche pentole dai coperchi ammaccati che si affollano nelle credenze. Si annida nel quotidiano il segreto delle nostre esistenze: più che nei gesti alla luce, fatti spesso teatralmente, in quelli minimi, spicci, automatici, ripetuti migliaia di volte. Bastano titoli come Cioccolata da Hanselmann(1995) o Ahi, Paloma (2000), che rimanda a una canzone, a indicare un punto privilegiato di osservazione dell’esistere. E così pure il titolo del romanzo d’esordio, apprezzato da Natalia Ginzburg, La bicicletta (1974): crepitante, ritmato, sensuale racconto di generazioni della buona, e tutto sommato difesa, borghesia che si annodano intorno a una grande casa di campagna.

Ancora una grande casa, ma piantata molto indietro nel tempo – tra il tardo diciottesimo secolo e l’Unità d’Italia – è al centro del suo romanzo di maggior successo, Le strade di polvere (1987, Premio Campiello): vite minime, staffette emotive, nascite e lutti, narrate vividamente in un “tempo presentificato”. Espressione di Cesare Garboli, il grande critico con cui la scrittrice – sposata con Giuseppe Loy, fratello del regista Nanni, da cui prese il cognome d’arte – ebbe una lunga storia d’amore. E l’ha raccontata nel suo ultimo libro, intitolato semplicemente Cesare (2018), con un andamento fra narrativo e saggistico già sperimentato in uno dei suoi libri di passione civile come Gli anni fra cane e lupo. 1969-1994, il racconto dell’Italia ferita a morte (2013) e nelle pagine di La parola ebreo (1997).

“Se vado indietro nel tempo e penso a come la parola “ebreo” è entrata nella mia vita, mi vedo seduta su una seggiolina azzurra nella camera dei bambini”: è un’interrogazione inquieta della propria memoria familiare. Un palazzo di via Flaminia a Roma, l’urto delle leggi antisemite; la scomparsa improvvisa e sconcertante di vicini di casa e amici. I ricordi personali e quelli labili, malcerti, di una collettività che tende a dimenticare: “Dimenticare l’orrore delle persecuzioni antisemite di questo secolo e il suo spaventoso finale può essere molto pericoloso. È come essere miopi e buttare via gli occhiali”.

Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria dice un titolo del 2004, e potrebbe valere da epigrafe a un’intera opera: che cerca, che chiede tenacemente alla memoria di svelarsi e svelare. Un esercizio proustiano? Solo in parte, perché quello a cui l’autrice si vota è un atto di memoria “volontaria”: “Recuperare quanto sembra irrimediabilmente perduto”, fu la risposta quando le chiesi quale fosse la ragione essenziale del suo scrivere. Questa ostinazione fa pensare a una scrittrice francese come Annie Ernaux, che esordisce come Loy nel 1974 e rovista, investiga, sfida la memoria; con sguardo fedele a una borghesia intellettuale non esentata dai traumi della Storia, con l’acume e la grazia che emanava anche di persona. E che conquistò i fratelli Dardenne: al punto da dedicarle il titolo di un loro film, Rosetta.


I funerali di Rosetta Loy
si terranno martedì a Roma alle 10,30 nella Chiesa dell’Immacolata Concezione, Grottarossa. La scrittrice sarà tumulata in Piemonte nel cimitero di Mirabello Monferrato (Alessandria), il paese dove c’è la tomba di famiglia della scrittrice e dove è ambientato Le strade di Polvere. Nel paese è stata proclamata una giornata di lutto cittadino.

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Appendice del 5 ottobre 2022 (cfr. commento della Redazione)