Libri

Pirandello, Serafino Gubbio e la nostalgia

proposto da Sandro Russo

Ho letto, con colpevole ritardo – ma alla fine l’ho letto – un romanzo minore di Luigi Pirandello [1]: Si gira, pubblicato una prima volta nel 1916 e poi ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore.
Doppiamente interessante per il modo in cui un letterato si pone davanti al cinema ai suoi esordi, ma anche per certe osservazioni sulle modalità delle riprese e sul variegato mondo che al tempo gravitava intorno al “fare cinema” (tecnici, attori, produzione, scenografie).
Perché in pochissimi anni il cinema è passato dallo stupore per il prodigio tecnico dell’immagine in movimento [2] (la prima proiezione dei fratelli Lumière è del 1895:) al cinema come espressione della fantasia e come arte con George Méliès [3].

A questi temi anche noi siamo doppiamente interessati: in quanto cultori della settima arte nei suoi stretti rapporti con la letteratura e il teatro; e anche perché il romanzo apre uno squarcio sul personale modo di intendere la nostalgia da parte di Pirandello. E la “nostalgia” declinata in tutte le sue forme è uno dei temi ricorrenti sul sito: più presente nei primi anni, quando tutto ancora doveva essere ricordato e messo per iscritto; meno frequentata adesso (undici anni non sono passati invano!) quando il grosso – del mondo vissuto e raccontato dagli Autori del sito – è stato tirato fuori dal barile e giocoforza si comincia a scavare sotto e intorno.

Da Ligabue: “La tigre nella giungla” (della serie “falsi d’autore)

«L’avvenire dell’arte drammatica e anche degli scrittori di teatro è adesso là.
Bisogna orientarsi verso una nuova espressione d’arte: il film parlato.
Ero contrario, mi sono ricreduto»
(Lettera di Pirandello a Marta Abba, 17 maggio 1930]

Il rapporto tra Pirandello e il cinema fu complesso, ambiguo, conflittuale, a volte di totale rifiuto, altre volte di grande curiosità. E fu certamente la curiosità per questa nuova modalità di narrazione per immagini, che si era già strutturata come industria cinematografica, che lo spinse a scrivere il romanzo Si gira, pubblicato una prima volta nel 1916 e poi ripubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. In questo romanzo il suo giudizio sul cinematografo è spietato sia quando teme che il pubblico abbandoni i teatri per correre a vedere su uno schermo “larve evanescenti” prodotte in maniera meccanica e fredda, sia quando descrive il mondo della produzione cinematografica popolato di personaggi volgari, impegnati a confezionare prodotti commerciali per soddisfare il palato delle masse e gli interessi degli uomini d’affari [4].

Pirandello vede nel teatro la singolarità, la facoltà di ogni spettacolo di essere sempre diverso ogni qualvolta viene portato in scena e, pur mantenendo lo stesso copione e gli stessi attori, ogni rappresentazione in sé diventa unica. [5]
Il cinema invece, essendo girato e montato in maniera definitiva, è ripetitivo; ogni film realizzato risulterà, dunque, sempre uguale a come è stato concepito inizialmente, sempre identico a sé stesso, ad ogni visione, in ogni luogo o tempo.  Inoltre, cambia anche la condizione dell’attore, esiliato dal palcoscenico al cinematografo e ridotto ad un’ombra destinata a rivivere su un misero pezzo di tela:
«[…] si sentono strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere, accendersi, prorompere in applausi.§Qua si sentono come in esilio. In esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma quasi anche da sé stessi. Perché la loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo, là, sulla tela dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in un’espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vòtamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore che esso produce movendosi, per diventare soltanto un’immagine muta che tremola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, giuoco d’illusione su uno squallido pezzo di tela» [6].

La trama
Il protagonista del romanzo, Serafino Gubbio, racconta in prima persona la sua storia di “operatore della casa cinematografica Kosmograph”. Serafino parla della propria condizione di un “signor nessuno” dietro la macchina da presa, una mano che gira una manovella.
La storia da cui il romanzo prende spunto è una storia d’amore, di cui è protagonista l’attrice russa, la “femme fatale”, Varia Nestoroff, dal passato tempestoso e nel tempo del racconto in un vortice di passione, divisa tra due amanti. Ci sono diversi personaggi secondari: un amico filosofo; un violinista cinico e geniale che si riduce a fare il barbone, una famiglia borghese (i Cavalena) in cui il marito è succube di una moglie gelosa ossessiva e la loro figlia conseguentemente disturbata.
Il romanzo giunge all’epilogo con il gran finale. C’è una tigre in gabbia; anch’essa un personaggio. Serafino fa approfondite considerazioni sulla sua condizione di prigioniera senza speranza e ha lunghi conversari con lei, davanti alla sua gabbia. La bestia dovrà essere sacrificata per una scena drammatica del film La donna e la tigre.

«Che guardi, bella belva innocente? […] e io, che t’amo e t’ammiro»

«L’India sarà finta, la giungla sarà finta, il viaggio sarà finto, finta la miss e finti i corteggiatori: solo la morte di questa povera bestia non sarà finta. Ci pensate? E non vi sentite torcere le viscere dall’indignazione? […] non si rialzerà più questa povera bestia, quando le avranno sparato […] la bella innocenza ingenua della tua ferocia rende qua nauseosa l’iniquità della nostra. Vogliamo difenderci da te, dopo averti portata qua, per nostro piacere, e ti teniamo in prigione: questa non è più tua ferocia; quest’è ferocia perfida».

E qui superando la finzione si compie la tragedia: la “femme fatale” viene uccisa dal suo amante, il quale, a sua volta, viene sbranato dalla tigre. Tutta la scena orribile si svolge sotto gli occhi dell’operatore, incapace di qualsiasi reazione, paralizzato in ogni sua funzione tranne che per la mano che gira automaticamente la manovella:
Come conseguenza dell’esperienza di orrore Serafino perde la voce: sarà il film a registra quello che la voce non potrà narrare. E l’industria cinematografica utilizzerà cinicamente quanto girato per la sua auto-promozione.

Da tutte le sue opere emerge chiaramente che Pirandello centra il proprio interesse sulla crisi che travaglia l’uomo del suo tempo. Un uomo che è privo di identità e di valori morali. Pirandello vuole afferrare quella crisi, la quale è una stagnazione non del singolo essere umano, bensì è una stagnazione che colpisce profondamente tutta la società. Nella sua opera Pirandello vuole appunto rappresentare la società del suo tempo: una società divisa, in cui gli uomini non riescono, anche se lo desiderano, a stabilire dei rapporti veri, sinceri e ad avere un vero dialogo tra di loro. In particolare egli rivolge la sua critica contro la famiglia. Pirandello vuole denunciare apertamente gli aspetti negativi e la crisi della famiglia: critica la sua codificazione sulle vecchie regole, e che non corrisponde alle esigenze della vita quotidiana. Tramite la sua opera Pirandello cerca di denunciare i limiti dei rapporti sociali. Vuole analizzare i conflitti tra la vita dell’uomo, e le forme che appaiono frequentemente nella vita degli individui. La vita è per Pirandello continuo progresso e continua evoluzione, e le convenzioni, i ruoli e le istituzioni sociali, invece, sono pura forma e, quindi, immobili e soffocanti [7].

Ma dicevamo della nostalgia… e torniamo al tema parallelo, oltre a quello del cinema.
I libri ci lasciano sempre altri doni, tra le pieghe del drappo principale della trama. In questo caso l’idea – amara, cinica, demolitrice – di Pirandello della nostalgia.
Siamo nel punto del romanzo in cui Serafino fa visita alla famiglia che aveva conosciuto negli anni della giovinezza. Era amico dei nipoti dei due anziani proprietari della villa. Amico di Duccella e Giorgio Mirelli, quest’ultimo poi finito suicida per amore della Nestoroff, la “femme fatale” di cui si è detto sopra.

Questa, per qualche accenno, era la villa del ricordo:
“Dolce casa di campagna, Casa dei nonni, piena del sapore ineffabile dei più antichi ricordi familiari, ove tutti i mobili di vecchio stile, animati da questi ricordi, non erano più cose, ma quasi intime parti di coloro che v’abitavano, perché in essi toccavano e sentivano la realtà cara, tranquilla, sicura della loro esistenza.
Covava davvero in quelle stanze un alito particolare, che a me pare di sentire ancora, mentre scrivo: alito d’antica vita, che aveva dato un odore a tutte le cose che vi erano custodite. (…)”.
(…)
“La luce filtra verde e fervida a traverso le stecche della piccola persiana della finestra, e non si soffonde nella stanza, che rimane in una fresca, deliziosa penombra, imbalsamata dalle fragranze del giardino.
Che felicità, che bagno di purezza per l’anima, a stare un po’ distesi su quel divano antico, dalle testate alte, coi rulli di stoffa verde, anch’essa un po’ scolorita.
– Giorgio! Giorgio!
Chi chiama dal giardino? È nonna Rosa, che non arriva a cogliere neppure con l’ajuto della sua cannuccia i gelsomini di bella notte, or che la pianta, crescendo, s’è rampicata alta su su per il muretto.
Piacciono tanto a nonna Rosa quei gelsomini di bella notte! Ha su, nell’armadio a muro, una cassettina piena di spighe a ombrello di rizòmolo, seccate; ne prende una ogni mattina, prima di scendere in giardino; e quando ha raccolto i gelsomini con la sua cannuccia, siede all’ombra del pergolato, inforca gli occhiali e infilza a uno a uno quei gelsomini negli esili gambi di quella spiga a ombrello, finché non ne forma una bella rosa bianca, piena, dal profumo intenso e soave, che va a deporre religiosamente in un vasetto sul piano del cassettone nella sua camera, innanzi all’immagine del suo unico figliuolo, morto da tant’anni (…)”
(…)
“È così intima e raccolta, quella casetta, e paga della vita che racchiude in sé, e senz’alcun desiderio di quella che si svolge rumorosa fuori, lontano! Sta lì, come rannicchiata dietro il poggio verde, e non ha voluto neanche la vista del mare e del golfo meraviglioso. Voleva rimanere appartata, ignorata da tutti, quasi nascosta lì in quel cantuccio verde e solitario, fuori e lontana dalle vicende del mondo.
C’era una volta sul pilastrino del cancello una targhetta di marmo, che recava il nome del proprietario: Carlo Mirelli. Nonno Carlo pensò di levarla, quando la morte trovò la via, la prima volta, per entrare in quella schiva casetta perduta in campagna, e si portò via il figliuolo di appena trent’anni, già padre a sua volta di due piccini.
Credette forse nonno Carlo che, tolta dal pilastrino la targhetta, la morte non avrebbe trovato più la via per ritornare?”.
(…)

Poi Serafino Gubbio, in un momento di crisi e di confusione emotiva, ha l’idea di tornare, alla vecchia villa dei suoi anni verdi…
“La villetta. Era quella? Possibile che fosse quella? Eppure, di mutato, non c’era nulla, o ben poco. Solo quel cancello un po’ più alto, quei due pilastri un po’ più alti, in luogo dei pilastrini d’un tempo, da uno dei quali nonno Carlo aveva fatto strappare la targhetta di marmo col suo nome. Ma poteva quel cancello nuovo aver mutato così tutta l’aria della villetta antica? Riconoscevo ch’era quella, e mi pareva impossibile che fosse; riconoscevo ch’era rimasta tal quale, e perché dunque mi sembrava un’altra? Che tristezza! Il ricordo che cerca di rifarsi vita e non si ritrova più nei luoghi che sembrano cangiati, che sembrano altri, perché il sentimento è cangiato, il sentimento è un altro. Eppure credevo d’essere accorso a quella villetta col mio sentimento d’allora, col mio cuore d’un tempo! Ecco. Sapendo bene che i luoghi non hanno altra vita, altra realtà fuori di quella che noi diamo a loro, io mi vedevo costretto a riconoscere con sgomento, con accoramento infinito: – Come sono cangiato! La realtà ora è questa. Un’altra.

Sonai il campanello. Un altro suono. Ma ormai non sapevo più se dipendesse da me o perché il campanello era un altro. Che tristezza! Si presentò un vecchio giardiniere, senza giacca. le maniche rimboccate fino al gomito, con l’annaffiatojo in mano e in capo un cappelluccio senza falde, calcato sul cocuzzolo come uno zucchetto da prete.
– Donna Rosa Mirelli? – Chi? – È morta? – Ma chi dite? – Donna Rosa… – Ah, se è morta? E chi lo sa?
– Non sta più qui?
– Ma io non so di che donna Rosa mi andate parlando. Qui non ci sta. Qui ci sta Pèrsico, don Filippo, il cavaliere.
– Ha moglie? Donna Duccella?
– Nossignore. È vedovo. Sta in città.
– Qui allora non c’è nessuno?
– Ci sono io, Nicola Tavuso, il giardiniere.
I fiori delle due siepi lungo il vialetto d’entrata, rossi, gialli, bianchi, erano immobili e come smaltati nell’aria limpida silenziosa, stillanti ancora della recente annaffiatura. Fiori nati jeri. ma su quelle siepi antiche. Li guardai: mi sconfortarono: dicevano che veramente c’era Tavuso lì adesso, per loro, che li annaffiava bene ogni mattina, e glien’erano grati: freschi, senza odore, ridenti di tutte quelle stille d’acqua.

Per fortuna, sopravvenne una vecchia contadina, popputa ventruta fiancuta, enorme sotto una grossa cesta d’erbaggi, con un occhio chiuso gravato dalla pàlpebra gonfia e rossa, e l’altro vivo vivo, limpido, cilestre, invetrato di lagrime.
– Donna Rosa? Vih! la padrona antica… Tant’anni che non ci sta più… Viva, sissignore, poverella come no? Vecchierella… con la nipote, sissignore… donna Duccella, sissignore… Buona gente! tutta di Dio… Non ha voluto mondo, niente… Qui la casa l’hanno venduta, sissignore, da tant’anni a don Filippo ‘u sùrice… – Pèrsico, il cavaliere.
– Andate, don Nicò, che don Filippo è conosciuto! Ne’, signo’. voi venite con me, che vi ci porto io da donna Rosa, accosto alla Chiesa Nuova.

Prima d’andare, guardai un’ultima volta la villetta. Non era più niente; d’un tratto più niente; come se la vista mi si fosse all’improvviso snebbiata. Eccola là: meschina meschina, vecchia, vuota… più niente! E allora, forse… nonna Rosa, Duccella… Niente più, neppur esse? Ombre di sogno, ombre mie dolci, ombre mie care, e niente altro? Sentii freddo. Una durezza nuda, sorda, gelida.
Le parole di quella contadina grassa: – Buona gente! Tutta di Dio… Non ha voluto mondo…
Ci sentii la chiesa: dura nuda gelida. Tra quel verde che non rideva più… Ma dunque? Mi lasciai guidare. Non so che discorso lungo su quel don Filippo, a cui stava bene sùrice, perché… un perché che non finiva mai— il governo passato… lui no, suo padre… uomo di Dio anche lui, ma… il suo, almeno per quello che si diceva…
E con la stanchezza, nella stanchezza, andando, tante impressioni di realtà sgradevole, dura, nuda, gelida…, un asino pieno di mosche che non voleva andare, la strada sudicia, un muro screpolato, il sudor fetido di quella donna grassa…
Ah, che tentazione di svoltare per la stazione e riprendere il treno!
Due, tre volte fui lì lì; mi trattenni; dissi: – Vediamo!
Una scaletta angusta, lercia, umida, quasi buja: e la vecchia che mi gridava da sotto: – Diritto, andate diritto… Sù, al secondo piano… Il campanello è rotto, signo’… Picchiate forte; è sorda; picchiate forte. Come se fossi sordo io…
– Qua? – dicevo tra me, salendo. – Come si sono ridotte qua? Cadute in miseria? Forse, due donne sole… Quel don Filippo… Al pianerottolo del secondo piano, due vecchie porte. basse. ritinte di fresco. Da una pendeva il cordoncino frusto del campanello. L’altra non ne aveva. Questa o quella? Picchiai prima a questa, forte. con la mano, una, due. tre volte. Mi provai a tirare il campanello dell’altra: non sonava. Qua, allora? E picchiai qua, forte. tre volte, quattro volte… Niente! Ma come? Sorda anche Duccella? o non era in casa con la nonna? Ripicchiai più forte. Stavo per andarmene, quando sentii per la scala le pedate grevi e l’ànsito di qualcuno che saliva faticosamente. Una donna tozza, vestita d’uno di quegli abiti che si portano per voto, col cordoncino della penitenza: abito color caffè, voto alla Madonna del Carmelo. In capo e su le spalle, la spagnoletta di merletto nero, in mano, un grosso libro di preghiere e la chiave di casa. S’arrestò sul pianerottolo e mi guardò con gli occhi chiari, spenti nella faccia bianca, grassa, dalla bazza floscia: sul labbro, di qua e di là, agli angoli della bocca, alcuni peluzzi. Duccella.
Mi bastava; avrei voluto scapparmene! Ah, fosse almeno rimasta con quell’aria apatica, da ebete, con cui mi si piantò davanti, ancora un po’ ansimante. sul pianerottolo! Ma no: volle farmi festa, volle esser graziosa, – lei, ora, così – con quegli occhi che non erano più i suoi, con quella faccia grassa e smorta di monaca, con quel corpo tozzo. obeso. e una voce, una voce e certi sorrisi che non riconoscevo più: festa, complimenti, cerimonie, come per una gran degnazione ch’io le facessi; e volle a ogni costo ch’entrassi a vedere la nonna che avrebbe avuto tanto piacere dell’onore… ma sì, ma sì…
– Trasite, prego, trasite…
Per levarmela davanti le avrei dato uno spintone, anche a rischio di farle ruzzolare la scala! Che strazio molle! che cosa! Quella vecchia sorda, istolidita, senza più un dente in bocca, col mento aguzzo che le sbalzava orribilmente fin sotto il naso. biasciando a vuoto, e la lingua pallida che spuntava tra le labbra flaccide grinzose, e quegli occhiali grandi, che le ingrandivano mostruosamente gli occhi vani, operati di cateratta, tra le rade ciglia lunghe come antenne d’insetto!
– Vi siete fatta la posizione (con la zeta dolce napoletana) – la posi-zzi-o-ne.
Non mi seppe dir altro. Scappai via, senza che mi passasse neppur per ombra, un momento, il pensiero di muovere il discorso per cui ero venuto. Che dire? Che fare? Perché chieder notizie del loro stato? Se erano davvero cadute in miseria, come dall’aspetto della casa si poteva argomentare? Consolatissime di tutto, stolide e beate con Dio! Ah! che orrore, la fede! Duccella, il fiore vermiglio… nonna Rosa, il giardino della villetta coi gelsomini di bella notte…

In treno, mi parve di correre verso la follia, nella notte. In che mondo ero? Quel mio compagno di viaggio, uomo di mezza età, nero, con gli occhi ovati come di smalto, i capelli lucidi di pomata, era sì lui di questo mondo; fermo e ben posato nel sentimento della sua tranquilla e ben curata bestialità, ci capiva tutto a meraviglia, senza inquietarsi di nulla; sapeva bene tutto ciò che gli importava di sapere, dove andava, perché viaggiava, la casa ove sarebbe sceso, la cena che lo aspettava. Ma io. Dello stesso mondo? Il viaggio suo e il mio… la sua notte e la mia… No, io non avevo tempo, né mondo, né nulla. Il treno era suo; ci viaggiava lui. Come mai ci viaggiavo anch’io? com’ero anch’io nel mondo dove stava lui? Come, in che era mia quella notte, se non avevo come viverla, nulla da farci? La sua notte e tutto il tempo l’aveva lui quell’uomo di mezza età, che ora rigirava un po’ infastidito il collo nel bianchissimo solino inamidato. No, né mondo, né tempo, né nulla: io ero fuori di tutto, assente da me stesso e dalla vita; e non sapevo più dove fossi né perché ci fossi. Immagini avevo dentro di me, non mie, di cose, di persone; immagini, aspetti, figure, ricordi di persone, di cose che non erano mai state nella realtà, fuori di me, nel mondo che quel signore si vedeva attorno e toccava. Avevo creduto di vederle anch’io, di toccarle anch’io, ma che! non era vero niente! Non le avevo trovate più, perché non c’erano state mai: ombre, sogno… Ma come avevano potuto venirmi in mente? donde? perché? C’ero anch’io, forse, allora? c’era un io che ora non c’era più? Ma no: quel signore di mezza età mi diceva di no: che c’erano gli altri, ciascuno a suo modo e col suo mondo e col suo tempo: io no, non c’ero; sebbene, non essendoci non avrei saputo dire dove fossi veramente e che cosa fossi, così senza tempo e senza mondo. Non capivo più nulla. E nulla capii, quando, arrivato a Roma e giunto a casa, verso le dieci della sera, trovai nella sala da pranzo, lieti, come se nulla fosse stato, come se una nuova vita fosse incominciata durante la mia assenza. Fabrizio Cavalena, ritornato medico e rientrato in famiglia, Aldo Nuti, la signorina Luisetta e la signora Nene, raccolti a cena.
Come? Perché? Che era avvenuto?”.


Note

(1) – Luigi Pirandello ((Agrigento, 1867 – Roma, 1936) è stato un drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1934. Per la sua produzione, le tematiche affrontate e l’innovazione del racconto teatrale è considerato tra i più importanti drammaturghi del XX secolo. Tra i suoi lavori spiccano diverse novelle e racconti brevi (in lingua italiana e siciliana) e circa quaranta drammi, l’ultimo dei quali incompleto (fonte Wikipedia).

[2] – L’invenzione della pellicola cinematografica risale al 1885 ad opera di George Eastman, mentre la prima ripresa cinematografica fu un cortometraggio di 3 secondi, realizzato nel 1887 dall’inventore francese Louis Aimé Augustin Le Prince. Il kinetoscopio fu un apparecchio ideato da Thomas Edison nel 1888, precursore di un proiettore cinematografico in cui delle fotografie proiettate in rapida successione davano l’illusione del movimento.
La cinematografia intesa come la proiezione in sala di una pellicola stampata, di fronte ad un pubblico pagante, nasce invece il 28 dicembre 1895, grazie ad un’invenzione dei fratelli Louis e Auguste Lumière, i quali mostrarono per la prima volta, al pubblico del Gran Cafè del Boulevard de Capucines a Parigi, dei brevi filmati (scene di vita reale in movimento) con un apparecchio da loro brevettato, chiamato cinématographe. l’invenzione dei Lumière aveva l’innegabile vantaggio dell’efficiente cremagliera, che trascinava la pellicola automaticamente a scatti ogni 1/25 di secondo, e una praticità mai vista, essendo la macchina da presa una piccola scatoletta di legno, facilmente trasportabile, che all’occorrenza, cambiando solo la lente, si trasformava anche in macchina da proiezione [è l’evoluzione tecnica di questo dispositivo “la macchinetta” che costituisce l’attrezzo di lavoro di Serafino Gubbio nel romanzo – NdA].

[3] – Tra i prime pellicole per cui si parlò di cinema d’autore e di invenzione del cinema di finzione si ricorda il Viaggio nella luna (1902) del francese Georges Méliès, padre del cinema di finzione, che ebbe un successo planetario. Un meraviglioso tributo al cinema e alla figura di Méliès è stato fatto da Martin Scorsese nel film (anche in 3D) Hugo Cabret (2011) degli inizi del cinema si è scritto anche in una Epicrisi (203) del 2 dic. 2018 e di Hugo Cabret nel Magazine di Omero del 15 febbr. 2012 (entrambi articoli di Sandro Russo)

[4] – Ibidem, in: https://www.pirandelloweb.com/pirandello-e-il-cinema/

[5] – F. Angelini, Serafino e la tigre, Venezia, Marsilio Editori, 1990, p. 30.

[6] – L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio Operatore, cit. p. 72.

[7] – Da: https://www.pirandelloweb.com/tesi-serafino-gubbio-operatore/ dove si trovano un’analisi e più dettagliate informazioni sul romanzo

2 Comments

2 Comments

  1. Gianni Sarro

    7 Maggio 2022 at 09:39

    Un piccolo capolavoro pirandelliano. Già un paio di volte l’avevo messo in scaletta per parlarne a lezione, per poi toglierlo.

  2. Pino Moroni

    9 Maggio 2022 at 06:33

    Caro Sandro,
    sei stato bravissimo! Qualcosa di cui avevamo proprio bisogno per pensare di nuovo!
    Un grande abbraccio.
    Pino

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