di Giuseppe Mazzella
Sono passati solo settanta anni da quando lo scrittore e giornalista Ezio Bacino, in un tour originale in Italia, visitò le nostre isole. Eppure appare un tempo lunghissimo. Siamo nei primi anni difficili del dopoguerra, Ponza e Palmarola gli appaiono in un’atmosfera immobile, antica. Le persone che incontra, di cui traccia ritratti acuti, sembrano scaturire direttamente da un passato mitico. Quel che colpisce soprattutto nei suoi racconti è il tono di cordialità e umanità che instaura con loro. Personalità con un passato tormentato, ma anche di ingenuità che oggi neanche riusciamo più ad immaginare. Pagine anche poetiche nelle quali Bacino descrive le bellezze ancora non contaminate dal turismo, soffermandosi su particolari che illuminano e danno una descrizione affascinante di quegli anni irripetibili, di quando Ponza era Ponza.
I due brani che vengono proposti sono tratti dal suo volume “Italia oro e cenere” edito da Vallecchi nel 1953. Di Bacino si è già scritto su questo sito en passant il 27 agosto 2016 in una segnalazione di Sandro Russo al libro “Avventure di piccole terre” di Ambrogio Borsani (leggi qui)
“…Con tranquilla certezza, come di un fatto di cronaca passata, gli abitatori dell’isola diranno che proprio qui sbarcò Ulisse: qui dove il sole splende incorrotto dall’aurora rosata al tramonto, perché Chiaia di Luna è il letto del sole, la sua bianca cuna di madreperla, la conchiglia nella quale si adagia a sera come una rossa perla. Né altro approdo per i miti potrebbe immaginarsi più puro e più astratto in una stagione primaverile della natura e della storia. Le barche in secca sui ciottoli levigati hanno l’aspetto di leggendarie imbarcazioni destinate ad un mare incontaminato, puro per una antichità che è eterna giovinezza. Han rifugio qui nelle grotte e vi approdano solo quei gusci che recano a Palmarola i coltivatori delle solitarie vigne e ne ritornano sbarcando sulla spiaggia le ceste colme di un’uva chiara, leggermente aurata. Le donne vengono dal porto attraverso il cunicolo della galleria, caricano le ceste sulla testa e scompaiono nuovamente sotto l’arco antico dello speco, armoniosamente ansate come canefore sotto il peso di quel capitello vegetale, sorelle delle figurazioni danzanti sulle anfore fittili della Magna Grecia. La mattina di buon ora e verso il tramonto quelle stesse donne, le ragazze dell’isola in piccola brigata vengono a bagnarsi sulla spiaggia di Circe. Non compaiono mai uomini nel lieto sciame femminile, così che le donne vi sono di una libertà ilare, arguta e gioiosa; riempiono l’echeggiante ansa lunata di strida e di vocalizzi come di uccelli marini sfreccianti sulle onde. Han corpo armoniosi ed eleganti, capelli lucidi strettamente annodati attorno al capo. In una natura tanto prodigiosamente solenne e verginale, che chiaramente si stilizza in forme doriche (la stessa chiarità, scansione ed euritmia di cadenze, gli stessi spazi pacati e luminosi, la stessa essenziale razionalità) ogni piccolo evento, ogni gesto e ogni voce acquistano un rilievo ed un’eco di solari ritmi pagani, non turbati da alcuna contingenza od artifizio”.
“…Michele Mazzella ci salutò e ci accolse come autentico padrone di casa. Egli era in effetti l’unico abitatore dell’isola dove viveva tutto l’anno menandovi esistenza di cavernicolo e di anacoreta; pur se tuttavia poteva vantarsi padrone di gran parte di Palmarola e del più e del meglio delle sue vigne arsicce e deliziose. La sua apparente povertà e l’assoluta solitudine non erano che arcaicità di vita; il ritorno alle origini ancestrali di un antico isolano, cui non era affatto ignota la vita associata e civile. Aveva abitato per trent’anni Nuova York, vi aveva lavorato, vi aveva guadagnato denaro; ne era tornato circa vent’anni orsono e da allora s’era volontariamente relegato su questo scoglio romito, presso le sue vigne. Di tempo in tempo giunge una solitaria barca alla spiaggia sottostante e da essa discende con pane ed altre magre provviste un parente, una figlia, una nuora; ma Michele Mazzella che ha viaggiato il mondo e abitato Nuova York resta lì ancorato a quella grotta, nel volgere delle ore, dei giorni, delle stagioni e degli anni, dei quali non tiene più alcun conto, avendo della misura del tempo perduto ogni necessità e memoria. Tuttavia, ospitale e cortese, accennava all’ingresso della sua grotta come ad un principesco palazzo, e nella cella freschissima scavata nel tufo offriva il suo vino e giunse persino con autentico tratto di signore, a scusarsi per non essersi raso quella mattina la barba che aveva evidentemente lunga ed incolta da alcuni mesi… E a chi gli disse che stava benissimo così come stava con la sua lunga barba di anacoreta, dardeggiò dagli occhi vividi di intelligenza e di saggezza uno sguardo acutissimo colmo e sorridente e sottintesa ironia, come a dire: ”Lasciamo andare! Son cose che si dicono…!”.
Doveva essere ben conscio, nonostante l’autenticità della sua condizione, della eccezionalità di essa e della divertita sorpresa che essa suscitava nella gente di passaggio. Forse la sua povertà di vita celava una ricchezza insospettata, ma autentica, e probabilmente recitava con elegante astuzia ed arte di mimo la parte dell’anacoreta evaso dal mondo e dalla società. Pronunziò anche alcune solenni massime di vita con tono distaccato e saggio di profeta e ci salutò dalla porta della sua caverna guardandoci discendere le scale di roccia perigliose con un ultimo ammonimento che doveva valere per quella come per tutte le contingenze della vita: “State attenti a non farvi male scendendo, perché una volta che un uomo si è fatto male non serve più a nulla “. Alludeva di certo alla propria condizione di infermità e soprattutto alla massima infermità sua, la vecchiezza, della quale aveva coscienza come del maggior male possibile. Eppure la luce diffusa su quel mondo di forme preistoriche e di immagini arcane – al tempo stesso orrende e sublimi – redimeva anche la estrema vecchiezza di Michele Mazzella in una antichità senza tempo, anzi in una giovinezza senza fine né mutamenti…”.