Racconti

Il mondo di Pasquale (3). ‘U puòrc’

di Pasquale Scarpati

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I momenti più gioiosi sono quando si sta tutti insieme: durante la vendemmia, quando si friggono le zeppole e quando ’u puòrc’ viene sacrificato.
’U puòrc’ occupa il suo posto, in una grotta sottostante l’aia, fin dal mese di marzo. All’inizio viene nutrito moderatamente, qualche avanzo dei pasti, granone, ed altri prodotti che la campagna offre quotidianamente. Ma dopo l’estate si mette all’ingrasso. Deve diventare più grasso possibile. Bucce di fichi d’india, ancora avanzi e soprattutto il pastone formato da vrenna (crusca), acqua e altri ingredienti mescolati. Lui grifa beato e non si sazia mai di ingozzarsi. Fa onore al suo nome! Quando il freddo si fa sentire e si pensa che si prolunghi per un po’ nei ‘giorni della merla’, si affilano i coltelli, si preparano le corde e la carrucola. Le pentole son pronte ed anche i contenitori dove riporre il tutto perché: del maiale non si butta nulla!

Si aspetta una giornata asciutta, secca. Si spera nel levante e/o nel grecale che, asciugando l’aria, portano via l’umidità. Sono quelle giornate serene invernali quando fa giorno tardi e la sera, all’imbrunire che giunge presto, è piacevole stare intorno a ’u rasiere sgranocchiando una nucella arrustuta, quattro fave secche anch’esse abbrustolite o meglio ancora ’na castagna pesta che, essendo dura, resiste più tempo in bocca e quasi quasi la si succhia.
Dal fuoco si sprigiona un fumo sottile saturo di odore di arancio o mandarino: su di esso sono state poste quattro scorze di questi agrumi per profumare la casa o come dice nonna: Per non far sentire l’odore del cucinato!

Ma come si fa per farlo salire dalla grotta alla curteglia? Non lo si può ammazzare lì perché l’ambiente non lo consente e neppure subito fuori la grotta perché è tutto sterrato. Né può essere costretto con la forza sia perché deve salire gli scalini, sia perché è pesante, sia perché ha una forza terribile. Come si fa? Lo si prende per la… gola. Gli si mostra, nel palmo della mano, ciò che lui gradisce di più (ghiande o mais) e lo si attira.
– Cic, cic… cic…
 – e lui sale piano piano ma sale. Grugnisce: ha fame perché da un po’ di giorni non tocca cibo; da giorni lo si fa digiunare. Ma la pancia a volte gioca brutti scherzi! Così si avvia verso il suo destino. Tutto deve pronto, anche l’acqua calda e tutto deve essere fatto velocemente.
Per prima cosa si raccoglie il sangue perché serve per fare il sanguinaccio: la nutella del tempo anche se si sapeva di cannella. Poi si appende e si raccolgono tutte le viscere perché tutte, ma proprio tutte, vanno utilizzate. Poiché non vi è modo di poterle conservare al freddo (non esistono né elettricità né tanto meno frigoriferi), le si distribuisce tra gli altri parenti. Così essi agiranno a loro volta quando ammazzeranno il loro maiale. Una bella solidarietà!
Quando il maiale viene diviso a metà per prima cosa si misura il grasso: quanto più è grasso tanto più vuol dire che l’allevamento ha avuto una buona riuscita. Il grasso infatti serve e viene usato al posto dell’olio. Ha un sapore tutto particolare in base all’alimentazione dell’animale. Un po’ come il miele che prende sapore dall’alimentazione delle api. Ha un sapore dolciastro e rende più saporite anche le costolette. Il tutto deve essere fatto velocemente prima che la carne si raffreddi e bisogna stare attenti che qualche mosca birichina non vada a poggiarsi su di essa: si perderebbe tutto – dicono.
Raccolte le interiora che poi vanno lavate per fungere da sacco per gli insaccati, si passa a sfasciare le altre parti dell’animale.
Si staccano le parti anteriori ed i piedi che, insieme alle cotiche, alle orecchie, a pezzi di carne di collo, alle tracchie, serviranno per insaporire la minestra fatta con cavolo verza, scarola e verdura selvatica di campo, comunemente detta menèsta ’i terra.
Si stacca la cotenna che viene leggermente bruciacchiata sul fuoco per eliminare le setole più ispide. Poi la si pulisce per bene, limandola, togliendo il grasso quanto più possibile. Essa viene adoperata per insaporire, tra l’altro, anche i fagioli rossi ma soprattutto viene usata nel sugo, al posto della braciole di carne di bovino. Viene, infatti, avvolta e nel suo interno vengono inseriti dei pinoli e del prezzemolo. Uno spago sottile la tiene avvolta. Mia madre nella braciole di carne inserisce anche l’uovo sodo.
Tutto il grasso che non serve per il lardo o il guanciale, viene tagliato a pezzetti, buttato in un pentolone e lasciato cucinare per un bel po’. Ecco si avvicina il momento di un’altra leccornia: i cìcule. Quando infatti gli adulti hanno deciso che la sugna è pronta, la si spreme in uno schiaccia patate.


Comincio a pizzicare i pezzetti che rimangono, belli croccanti: le cìcole. Una delizia! Carne e grasso. Sono come le ciliegie: una tira l’altra. Anzi a volte ne prendo una manciata. Faccio prima! Nonna ne mette da parte una bella manciata. Serve per farci il pane! Impastate con la farina danno un pane morbido e saporito a causa del grasso. Le vesciche di vaccina sono già pronte, ben pulite. In esse viene riposta la sugna. Si addensa per il freddo.

Le cìcole pressate

Sugna (‘nzogna) nella vescica

Sugna (‘nzogna) nei boccacci di vetro

Altra golosità l’impasto della carne per la salsiccia. Quella detta di fegato ( in cui in realtà c’è un po’ di tutto: dal cuore, alla milza, a qualche pezzo di polmone) non mi attira anche perché si insaporisce con più spezie e anche con bucce di arancio. Non si può assaggiare da crudo.
Invece l’impasto per la salsiccia è tutt’altra cosa. Quello è speziato ed è piccante. Non importa. Sto sempre lì intorno. Ora un pezzettino ora un altro. Nonna mi dice: – Ti fa male, ora te lo cucino! Ma io non le do retta.
Se decide di cucinarlo a me non dispiace: assaggio l’uno e l’altro. Si avvolgono il capocollo e la pancetta, mentre una coscia posteriore viene salata  e messa sotto peso in un recipiente capiente perché deve scolare tutto il sangue. Quella è destinata a diventare prosciutto. Ma è un po’ difficile perché il clima è piuttosto umido. Si sta molto attenti. Se si nota qualcosa che non va, viene adoperata in altro modo. Con il muso e altri pezzi si fa la cosiddetta gelatina. Un piatto ricco di grasso e cartilagine più che carne. Da servire freddo. Croccante e morbido nello stesso tempo. Così nel giro di poco tempo quello che fino a poco tempo prima pasceva beato, ha reso beati gli uomini.
L’asino quando un maiale lo insultava e lo umiliava dicendo di trascorrere la sua vita al servizio degli uomini: – Mi pare, però, che tu non sei quello dell’anno scorso! – gli rispose guardandolo attentamente con occhio ironico.

Quando erano finite le provviste, nonna qualche volta mi chiedeva di andare là dove ammazzavano le vaccine: al macello nei pressi della chiesa del Porto. Mi dava un contenitore dove far mettere del sangue. La prima volta che mi diede questo incarico, non sapendo come comportarmi, rimasi fuori dal cancello di legno del macello in attesa che qualcuno venisse ad aprire. Era una porta non molto grande da cui si intravvedevano dei gradini sulla destra. Bisognava scendere per cui non riuscivo né a vedere né a farmi vedere.
Dopo un po’ una persona salì gli scalini e aprì il cancelletto. Mi chiese: – Uhe! E tu che fai?
– Sono venuto a prendere un po’ di sangue
– risposi.
Lui: – Ma è tardi, oramai il sangue è andato via! Vieni domani.
Così ritornai il giorno dopo. Questa volta subito bussai e, per la prima volta assistei alla macellazione. Raccolto il sangue, di corsa lo portai ai Conti. Nonna lo cucinò e ne uscì una sorta di fegato. Ma io non lo volli neppure assaggiare!

Insomma la festa del maiale non poteva non finire che con un bel sugo di pomodoro, rosso e denso, che nonna aveva essiccato al sole durante i mesi estivi, stendendo su di esso una rete a maglie sottili per evitare che le solite mosche si poggiassero.
In esso ovviamente vi erano pezzi del maiale di nonna. Qualcuno in casa aveva fatto gli gnocchi con le patate di nonna. Una bella grattugiata di pecorino, un po’ salato, del latte della pecora di nonna. Un bel bicchiere di vino rosso della cantina di nonna. Il pane fatto in casa da nonna. I mandarini di nonna, il panettone fatto con le uova delle galline di nonna e per concludere non poteva non mancare il dolce, ineguagliabile spumante ponzese di… nonna.
E chi scende più dai Conti!?
Certo non Pasquale… se ci andate, ancora lì lo trovate!

Sul sito, sull’uccisione del maiale, da leggere anche:

di Sandro Russo (2012)
Accedimm’ ’u puorc’ (1)
Accedimm’ ’u puorc’ (2)  (contiene il racconto “Emma e il maiale”: una storia vera!)

di Rinaldo Fiore (2018)
Vita di paese (1). La nevicata e il maiale
Vita di paese (2). La nevicata e il maiale

 

2 Comments

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  1. Una corrispondenza tra Luigi Dies e Pasquale Scarpati riportata da Sandro Russo

    11 Febbraio 2022 at 07:06

    Sandro aveva premesso ai primi pezzi del “triplete” di Pasquale che molti dei temi svolti erano seguiti ad un scambio via whatsapp dell’Autore con Luigi Dies.
    Alcuni di questi spunti, originali e interessanti, li riporto a corollario dell’ultimo racconto pubblicato, ma hanno riguardato anche i precedenti.
    Scambi del 6 e 7 febbraio.

    Ciao Pasquale,
    ti volevo chiedere se risulta anche a te che quando si ammazzava il maiale, se capitava qualcuno che assisteva per la prima volta alla macellazione, questa persona veniva incaricata di tenere la coda all’animale ben salda, sollevata e tesa. È una reminiscenza… così… estemporanea.
    Ancora mi ricordo i pann’ ’i lard’ appesi, pure nelle macellerie era uno spettacolo. Ma ancora di più mi ricordo le “cicole” croccanti che rimanevano dopo aver estratto con lo schiaccia patate tutta le sugna da una massa di carne grassa tagliata in mille pezzettini e messa a bollire. Altro che spiedini. Ho letto il bel pezzo dell’altra volta [il (2) – ndr]. Ho rivisto la stessa scafaréa nella cucina di mia nonna. A noi l’aveva arrepezzata Minicuccio ’a vocca storta” con le ciappe di filo di ferro (e credo anche qualche mastice). Mia nonna e poi mia madre ci impastavano dentro i casatielli a Pasqua a quattro chili di farina per volta. Pure noi eravamo una squadra.
    Vabbè, comunque… tante belle cose su Ponzaracconta, ma quando si parla di politica… Nun ci’a pozz’ fa’! Per cambiare qualcosa devono saltare per aria le scrivanie dentro gli uffici.
    Ciao Pasquale. Ci sentiamo.

    Caro Luigi
    Non so se è come dici tu. Sta di fatto che c’era chi manteneva la coda. Ma nel riportare ciò che accadeva mi sono volutamente astenuto dal descrivere nel dettaglio il rito cruento dello “scannamento” della povera bestia (come pure di quello della vaccina: ma quello era già meno cruento perché si usava un colpo di pistola in fronte: lo vidi fare al macello in quel dell’Isola).
    Certo ricordo bene i piezz ‘i lard e le cicole… (quando il lardo era pronto mi mettevo lì, ne tagliavo una fettina e…. dai: tira con i denti! Anche se quando si seccava troppo era salato).
    Con le cicole nonna ci faceva anche il pane. E l’impasto delle salsicce dove lo metti? Ma poi soprattutto quel maiale aveva tutt’altro sapore: bella carne saporita! (come il pollo o il coniglio dalla carne oltretutto soda che non si staccava dall’osso). Oggi neppure il cinghiale selvatico ha sapore! O forse dipende anche dalle nostre papille gustative che si sono fatte vecchie anch’esse?). Quel sugo con le tracchie, un pezzo di salsiccia, un bel pezzo di carne, una cotica avvolta tipo braciola (a me allora non piaceva; sottolineo allora. Ora mi piace, forse perché cerco in essa quegli antichi sapori, almeno una parvenza!).
    Tutto ciò ad onore del colesterolo! Ma chi l’aveva! Venendo a noi: ero partito pensando a te nel parlare del maiale ma poi mi sono compenetrato nella calda atmosfera della cucina di nonna e di là sono uscite prima le zeppole, poi a casa di nonna ci sono arrivato tramite la via vecchia con un occhio anche alle Forna (altro paese nel paese: anzi un paese a volte diverso per lingua e costumi. Lì si respirava tutt’altra atmosfera!) ed infine sono risalito da nonna per ‘a festa d’u puòrc’.
    Come vedi la mente divaga, farfuglia e gironzola… Sbaréa! Come gironzolano quelli della politica ponzese. Hai voglia di dire. A me spiace tanto quando si deturpa cotanta bellezza. Le cause sono parecchie.. In un mio vecchio pezzo intitolato “Maior et Minor” vagheggiavo una sorta di Paese ideale… Lì trovi raccolti molti dei miei “pensieri politici”…
    Vabbè!…
    Ciao ed un caro abbraccio Pasquale

    Ciao Pasquale,
    ti scrivevo sopra di come mi prende quando sento parlare di politica e dei tentativi di salvare Ponza. Nun ci’a pozz’ fa’! …quella, la politica, non ce la fa nemmeno a salvarsi lei. Lo scrivevo proprio ieri a Sandro.
    Quando ci pensi, alle cose da fare per cambiare l’andazzo, finisci sempre dentro un labirinto di ipotesi e propositi a volte anche assurdi o belli ma inattuabili umanamente. Soprattutto perché mancano le persone. Perché comunque oggi non basta più “avere le palle”. Queste servivano per andare meglio quando tutto già girava bene. Oggi servono dei kamikaze votati al martirio per addrizzare un minimo ’a vannata!
    Poi casomai ti do la mia visione delle probabilità che ci sono di cambiare la realtà di Ponza che scivola lentamente verso il fondo.
    Ma torniamo al maiale…
    Quella della coda sarebbe stata una nota umoristica che poteva sdrammatizzare uno “scannamento” che comunque neanche serve descrivere in quanto chiunque si mangia una braciola lo sa che qualcuno ha ammazzato la bestia. Quindi, al momento di affondare la lama, la narrazione si sposta sul deretano del maiale e sul povero sprovveduto reggitore di coda – che tra l’altro, come ben sai, è molto corta -, a cui è stato caldamente raccomandato di non lasciarsela assolutamente sfuggire di mano per non rischiare fatture e anatemi. Alla fine forse tutto era fatto proprio perché il maiale quasi diventava uno di famiglia. E allora si voleva un poco alleggerire l’atmosfera, specialmente per i più teneri di cuore.
    Ecco qui ora come si svolgeva la scene e il perché di affidare l’eroico incarico ad uno ignaro neofita. Infatti tutti sanno, dopo la prima volta che si sono cimentati nella comunque drammatica esecuzione, che la povera bestia nel momento del suo traumatico trapasso libera violentemente l’intestino e benedice nell’abbondanza chi sta assolvendo con il massimo impegno e concentrazione la sua inutile mansione. Questa non credo sia una prassi o una costante, ma da notizie venutemi da sopra i Conti quando frequentavo Pepp’ ’i Miglian’ e Gesummina, papà e mamma del farmacista Emiliano, mi risulta come episodio verificatosi in qualche occasione e spesso sentito raccontare.
    Vabbè, comunque un aneddoto, giusto (come dici tu) per sdrammatizzare un poco. Ti saluto e vediamo cosa si può raccontare ancora… Ma che ne ponn’ sapé’!
    Ciao,
    Luigi

  2. Sandro Russo

    11 Febbraio 2022 at 08:48

    È stato interessante seguire gli scambi tra Pasquale e Luigi, e gli andirivieni della memoria del cumpariello! Mai andare a stimolare il Pasquale che dorme!
    Pasquale si raccomandava di rendere bene il verso Ciic, cic… cic…, che si faceva per “incanusire” la povera bestia e indurla a muoversi da sola verso il luogo del patibolo.
    Ribadisco: la “c” finale di cic non è dolce, ma dura come se fosse cik.
    Che poi è un modo di dire dialettale ponzese collegato con la golosità (spizzicare, assaggiare qua e là). Per esempio: Nun fa’ cic cic, ca po’ stasera nun mange!

    Tra l’altro le cose raccontate del maiale fanno parte anche della mia infanzia cassinate (cassinese! secondo Aniello De Luca). La mia casa natale, lì, aveva due grandi magazzini al piano terreno, dove ogni anno “facevamo il maiale” che compravamo già cresciuto e ingrassato da contadini del posto. Quindi partecipavo pienamente a tutte le fasi del rito. Era la norma e non ne ero particolarmente sconvolto. Poi negli anni avrei sviluppato una sensibilità del tutto diversa nei confronti del dolore in genere e degli animali in particolare – Leggi qui: “Quinto non uccidere”.
    Un’empatia che è contrastata dal condizionamento sociale.
    Faccio sempre l’esempio di Karen Blixen – che pure era un’anima bella – che descrive i muscoli lucidi e (fino a poco prima) guizzanti sotto la pelle di un leone appena ucciso (e scuoiato), nella ‘sua’ Africa (leggi qui). Senz’ombra di altri pensieri. Anche se lì si trattava di ricchi europei in un paese (ancora) vergine e qui di bambini in un contesto (quasi) contadino.
    A pochi – per una sensibilità fuori dal comune, o per la concomitanza di eventi particolari – capita invece di essere colpiti dalla sofferenza dell’animale e di esserne segnati per sempre. È il caso di Emma, una signora che ho conosciuto, nel racconto “Emma e il maiale” citato in link.

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