Racconti

Ceppone… ceppone!

di Pasquale Scarpati

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Questo articolo si collega ad un altro, sullo stesso argomento Spin off. I viecchie e ‘u ceppone,
innescato sempre da Pasquale Scarpati – ndr

Non so se ’u ceppone sia mai esistito, così come lo pensiamo noi.
Da bambino mi raccontavano di vecchi legati a un tronco d’albero, detto per l’appunto ’u ceppone, dove venivano mangiati dalle formiche.
Per me, bambino del Porto, questo luogo era collocato verso le Forna e, come in tutte le favole, in una zona non ben definita.
Penso si tratti di leggenda se presa così com’è. Ma come tutte le leggende nasconde un fondo di verità.
È pur vero che anticamente, presso alcune popolazioni i vecchi venivano lasciati morire ma non penso che ciò sia mai appartenuto alla nostra cultura, per secoli cristiano-cattolica.

Quando ero bambino, stando a contatto con gli adulti, sentivo dire di persone anziane che si rivolgevano ai carabinieri perché nessuno dei figli voleva accudirli. In effetti non c’era la pensione così come l’intendiamo noi né i figli, con numerosa figliolanza a loro volta, navigavano in buone acque per cui i poveri genitori erano sballottati di qua e di là. Qualora nessuno li avesse voluti, dove andavano a vivere? Vi era l’obbligo per il loro sostentamento da parte dei figli? E se anche ci fosse stato, in cosa consisteva? E se i figli, per varie cause, venivano meno a tale obbligo o se morivano? Quali conseguenze? Anche le donne spesso lavoravano nei campi. Oggi ci sono badanti, RSA ed altro, ma in quel tempo? Il tutto, però, ha un costo monetario! Dov’era il denaro in quel tempo? A quel che ho sentito dire, la casa paterna, se di proprietà, toccava in eredità al più piccolo dei figli. Ciò è comprensibile perché si presupponeva che quello, nato spesso a vent’anni di distanza dal primo figlio, vivesse tanto ma soprattutto con una famiglia appena formata, da poter accudire, in quella casa, i genitori pur a 60 anni già divenuti viecchie.

L’area portuale di Ponza In primo piano la statua di Mamozio. Mattei. 1847

Vecchi, infatti, a quei tempi lo si diventava appena varcata la soglia dei 50 anni! A quell’età se non prima ancora, infatti, già si mostravano i segni di una certa decadenza. Artrosi, scoliosi, cifosi, lordosi, dolori vari che spesso anchilosavano. Quante volte, infatti, da bambino vedevo vecchi o presunti tali camminare curvi e malfermi con il bastone! Spesso in bocca rimanevano pochi o addirittura senza denti. Anche l’alimentazione che sarebbe dovuta essere più consona al loro stato non era adeguata. Le malattie invalidanti esistevano fin da allora e affioravano. Il precoce decadimento del corpo, era dovuto alla vita di stenti fin dalla più tenera età, all’ambiente malsano e ad altri fattori. Quelli che non avevano patologie (non molti in realtà, anzi pochi) erano “querce” secolari. A loro bastava una camomilla per star bene. Ma loro erano delle eccezioni! Né i rimedi erano efficaci.

’U ceppone pertanto aveva due aspetti: da una parte lo stato di abbandono, di frustrazione in cui erano costretti a vivere gli anziani, la loro sofferenza fisica a causa degli acciacchi e degli scarsi rimedi, dall’altra essi vagheggiano di essere accuditi, forse coccolati perché quando si è anziani si diviene, a volte, un po’ bambini dal punto di vista fisico: le forze scemano, a volte si devono usare i… pannoloni, un dolore o una ferita possono essere percepiti in modo diverso, ingigantiti rispetto a quando si è giovani, si perde, a volte, la cognizione del tempo (è la ruota della vita). Nello stesso tempo lui si guarda intorno e vorrebbe agire come quando è giovane, ma poi si accorge che non può. Si chiede il perché e, se non lo accetta, si dispera.
Dal punto di vista morale potrebbe agognare a vivere una vita serena senza troppi grilli per la testa o troppi pensieri ma neppure questo è sempre possibile.
Il tutto può essere sintetizzato nel vecchissimo detto popolare: – ’Na mamma dà a campa’ a cient’ figlie; cient’ figlie nun dann’ a campa’ a ’na mamma!”
Ma la solita persona maliziosa che non ha peli sulla lingua ha detto:
Oggi, purtroppo, ’u ceppone esiste ancora!
– Come? – gli ho risposto.
Quando gli anziani sono trascurati, quando a loro non si porta rispetto, quando malvagiamente si parcheggiano e si abbandonano nelle RSA, salvo poi fingere dolore per la loro perdita o appellarsi alle forze dell’ordine se le cose non vanno, non è forse un legare l’anziano al ceppone?
Non ho risposto perché non so cosa rispondere: è molto triste ciò che ha detto! Ho pensato: – Perciò la parola ceppone non la si trova in alcun dizionario: non può essere definita!

Per quelli che erano andati a colonizzare l’Isola si apriva uno scenario allucinante. Immagino: bisognava dissodare terreni e costruire parracine. Era tutto in abbandono, niente strade e pochi sentieri se non quelli formati dalle acque dilavanti.
Se l’Isola fossa stata vista dal satellite si sarebbe vista una macchia verde scuro, molto folta con il mare che toccava la base delle colline là dove oggi c’è il Porto con corso Carlo Pisacane, Sant’Antonio e Giancos. Unico approdo: la spiaggia di Santa Maria. Probabilmente la prima zona colonizzata. Di là i coloni si inerpicarono, con il tempo e con i mezzi di allora, su su per le colline verso le zone più soleggiate, gli Scotti ed i Conti. Incontrarono boschi e sorgenti d’acqua.
A mano a mano rosicchiarono tutto. Avevano bisogno di natanti e soprattutto di spazi!
Unica zona pianeggiante: ’a padura dove s’insinuava forse, anche un braccio di mare e dove s’impaludava parzialmente l’acqua che scendeva dalle colline circostanti.
Per non parlare del le Forna dalle rupi scoscese con pochi appigli per le barche. Vita dura dei nostri antenati in una terra selvaggia, da addomesticare. Le prime abitazioni furono grotte naturali o scavate (esistevano e vi abitavano ancora negli anni ’30 del secolo scorso o giù di lì) né si può pensare che le abitazioni (così come le vediamo attualmente) siano sorte velocemente come funghi a causa della lentezza dei mezzi di allora e del loro reperimento.
Pertanto, chi aveva tempo e chi poteva accudire e “stare dietro” agli anziani oltretutto con i mezzi di allora? Le donne? Esse, come sempre, si sobbarcavano tantissimi lavori. Erano massaie a tempo perso. Il loro posto stava principalmente nei campi ad aiutare a costruire parracine e canali di scolo, a seminare, a raccogliere i frutti, ad estirpare erbacce. Nella casa/grotta restavano, forse ma non sempre, per mettere al mondo una nidiata di figli con tutti i pericoli connessi (tra l’altro la micidiale febbre puerperale), per cucinare in forni fatti di pietra o sottoterra, per allevare gli animali da cortile, insomma per fare anche tutto ciò che era connesso con la dura vita dei campi. Quando tutto andava bene e non avevano a che fare con mariti ubriaconi e maneschi! Quindi lavoro duro nei campi e non solo. Avrebbero mai potuto accudire gli anziani che oramai avevano fatto il loro tempo?
Essi rimanevano lì, reietti in attesa dell’evento finale… Mia madre mi raccontava che una sua zia partorì in mezzo alla campagna, mentre vendemmiava…

 

Ci piace immaginare il nonno con la pipa in bocca mentre racconta i suoi viaggi ai numerosi figli ed ai nipoti vicino al fuoco o sulla curteglia mentre cantano i grilli.
Ma quelli sono già nonni… moderni! Appartengono all’inizio del ’900 ed il ’u ceppone è soltanto un racconto o un ammonimento!
È auspicabile, pertanto, che oggi ’u ceppone – solitudine, abbandono degli anziani – sia soltanto un lontano ricordo dei tempi bui di una volta!
Insomma: la vecchiaia è una brutta bestia! Da qualunque parte la si guardi!
Ve lo dice…
Pasquale  

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