Ambiente e Natura

Franta, s’apre la via. La poesia (1)

di Francesco De Luca

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Fra le cose, gli uomini, gli accadimenti, nell’esaltazione della poca luce che evidenzia la pochezza dell’isola, seppure nella disfatta invernale, splendida la poesia si spande. Non è evidente, è allusa, non è palese è supposta. Setacciando la realtà nella sua congerie, nettandone gli aspetti riposti lei si palesa. Pudica, scontrosa, dal suono pacato, dalle espressioni misurate.

Ma quale poesia? Tu vaneggi. Qua, ovunque giri lo sguardo, di persona o nei media, deborda dolore e repressione. Dove la vedi questa poesia? Sono macerie da cui fuoriescono pianto, contrizione, accuse.

In occidente ferve una grande cucina, con fuochi accesi sotto calderoni strapieni di vivande. E’ un rigoglìo di vivande. Le fiamme brillano e i cibi si cuociono nei pentoloni, orgoglio e ricchezza, e spandono profumi di sapori. Chi mangerà tutta questa roba? I padroni sono pochi, minati da malattie per eccessi alimentari, sedentarietà e vecchiaia. Molta roba sarà buttata nei rifiuti, molta la mangeranno di soppiatto i migranti venuti da oltre confine. Appetito vorace, fame di giustizia.

I sazi si ingozzano di patologie, e gli affamati raccolgono gli avanzi, soddisfatti per essere tollerati, messi a lavoro sfibrante. Seguono il sogno di dare un senso alla effimera, dolorosa, meravigliosa loro esistenza.

Hanno rimosso i suoni del villaggio, lo spirito degli avi, il clima sonnolento della loro casa. Cercano siti nuovi, circostanze inusuali, gesti fondati sui diritti. Si ubriacheranno di imprevedibilità e di norme, e cercheranno di trovare nei testi scritti i fondamenti della loro esistenza.

La bimba che hanno in braccio riposerà sotto un cielo dove i diritti sono presenti come le stelle. Adesso dorme perché gli occhi erano stanchi di brutture. Domani il nero della pelle risalterà fra le amichette di scuola. Sarà la più amata.

“E’ vero, sarai l’amica più ambita, Laila. Il tuo caschetto crespo spiccherà fra le bimbe a gara di gioia. A san Silverio, passeggerai sorridente su Corso Pisacane, le luminarie sfavillanti, le canzoni della band associate all’aria già estiva, al mare invitante, alla folla dei turisti, pronti allo sbraco”.

Inosservata discende la sera. L’isola la desiderava da un anno e si lascia ai suoi inviti.

Lucia e Vincenzo sono venuti da Boston. Lui partì per l’America dopo la licenza media. Anzi no, passò due anni ancora sull’isola. Il padre lavorava alla SAMIP, in miniera, a Le Forna. Aveva già i sintomi della silicosi ma, fra qualche anno, sarebbe andato in pensione. Il giovane, per tenersi lontano dalla tirannia dei mestieri di mare, rispose all’atto di richiamo della zia. Un ragazzone, Vincenzo. Buono, disponibile, ma lento e non ben disposto verso il lavoro. In America c’è posto per tutti, seguì questo slogan.

Come si sia disbrigato a Boston non lo so perché per anni non sono trapelate notizie, almeno a me. “Come sta Vincenzo?”
“Sta bene” – rispondeva Rusulina, la madre. “Ma non viene?”
“No…”.

Dopo anni a giugno si vide comparire Vincenzo. Ancora più massiccio nella sua struttura corporea. Più muscoli e più sorriso.
“Vecié, come stai? Come ti sei fatto grande!” La mia espressione tradiva il fatto che l’avevo conosciuto alle elementari. Un cucciolo.
“Sto bene…” – e mi mostra la ragazza accanto. Che io conosco ma che non sapevo fossero fidanzati e pronti per il matrimonio.

Corso Pisacane è intasato di persone a passeggio. La festa signoreggia nei gesti, nelle parole, nei vestiti, nei sorrisi. E’ difficoltoso portare avanti un discorso serio, e neanche uno semiserio. La circostanza invoglia ad un fraseggio breve, ad un dialogo smozzicato, insomma si cammina tutti, per imitazione. La festa signoreggia.
“E ora… dove vai?”
“Vado in chiesa” – risponde Vincenzo.
“In chiesa? – dico sorpreso – E perché?”

“Perché questa festa non è per me. Io a Boston fatico ind’ a nu night club. Llà ‘a confusione è massima, femmene in quantità, sfumante, whisky, balli, abbracci, baci, musica a palla. La festa la devo sopportare ogni giorno. E po’? Questa di san Silverio è una festa particolare. Si vede bene che i ponzesi si vogliono togliere di dosso la malinconia dell’inverno. Lo fanno con allegria e onestà, e i turisti gli stanno dietro perché è tutto sincero, tutto originale. Chesta è na festa paesana. Mezza religiosa e mezza popolare”.

Parla e io rimango colpito dalle sue osservazioni. Non m’aspettavo da quel bamboccione, come lo ricordavo, tanto acume. Avevo sbagliato a non considerare l’esperienza e l’età. In Vincenzo i due fattori avevano avuto il loro peso. Quel bamboccione era cresciuto, e le esperienze affrontate lo avevano fatto maturare.

La ragazza a fianco lo guarda con ammirazione e anche io devo aver cambiato espressione. Vincenzo capisce.  “Mo vaco a chiesa, saluto san Silverio e me ne torno a casa”- dice.

Lo saluto con un finto sorriso. Fra noi due io ero quello rimasto indietro. Vincenzo interpretava la realtà con disincanto mentre io ero legato a vecchi stereotipi: Ponza autentica, l’America patinata e falsa.

Lacera il cielo un botto. Secco e perentorio. E’ il segnale convenuto dell’inizio dello spettacolo dei fuochi pirotecnici. I visi si rivolgono al cielo, gli sguardi diventano aperti alla fantasmagoria dei colori. Un cane si acquatta fra le gambe dei padroni. Un bimbo in braccio alla madre, agli scoppi convulsi nasconde il viso. Due innamorati, in bilico sul muretto nella piazzetta della chiesa, quello che guarda il mare, ad ogni aprirsi del bocciolo di luce in una corolla variopinta si stringono in un abbraccio e in un bacio.

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