Antropologia

Dal pane di casa al pane francese

di Tano Pirrone

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Sono stato spinto a scrivere questa breve storia dalla lettura del bell’articolo di Enzo Di Fazio (leggi qui), pubblicato lo scorso 9 novembre. Mi è parso straordinario constatare come lo stesso fondamentale rito della preparazione del pane, a distanza di poche centinaia di chilometri, pur tanto simile, fosse nella sostanza così diverso. Ho dedotto che gli stessi gesti fossero influenzati dalla struttura sociale, dalle attività economiche del contesto, dal sistema di interrelazioni fra gli strati della popolazione locale e fra essa e i paesi vicini, le sfumature culturali, linguistiche comportamentali che da campanile a campanile variano e si distinguono.
Incerto sulla forma, ho poi deciso di raccontare secondo il modo che conosco meglio, dipanare le storie attraverso la mia, intrecciare le vicende generali a partire da quelle personali e familiari. A me questo serve, perché il viaggio che compio è sempre un viaggio (spesso sperduto o inafferrabile) alla ricerca di me stesso e dei miei dodici lettori perché abbiano con chi scrive il massimo della vicinanza.

Pane di casa

Fin quanto i Ventura non arrivarono a Francofonte da Siracusa ed avviarono una fiorente attività di panettieri, tutti in paese, ognuno nel giorno che gli stava bene, nella quantità necessaria, nelle taglie preferite e nelle forme più strane, ognuno faceva il pane a casa; o, per necessità, lo comprava al forno a legna, nelle pezzature da un chilo o da mezzo chilo. Il pane era fitto fitto e, quando era fresco, spalmato di ricotta o di marmellata era la merenda più buona di tutte e di sempre.
Chiamavo mia madre dalla strada e le dicevo che avevo fame (non era una novità: solo tre giorni in vita mia non ho avuto fame e quei giorni coincisero con quelli più tristi della mia vita). Mia madre spariva in cucina per qualche minuto e poi calava il paniere dentro il quale c’era una bella fetta di pane spalmata di ricotta. L’afferravo e tornavo subito a giocare fino ad ora di cena, quando una voce, dal balcone, quasi all’unisono con altre voci, soprattutto di mamme, non mi chiamava per la cena. Dovevo correre, per lavarmi, pettinarmi e farmi trovare in ordine da mio padre che rincasava. Immancabile, nonostante le mie crescenti proteste, la molletta per tenere inutilmente a bada una sorta di ispido ciuffo.

Papà tornava quasi sempre dritto dritto dal Circolo, dove aveva trascorso il pomeriggio a leggere e a chiacchierare con gli amici, qualche volta a giocare a carte. Giocava a bridge, gioco per me oggi come allora incomprensibile.

A pranzo e cena, il pane che mangiavamo era, dunque, fino all’arrivo dei panettieri di Siracusa, quello fatto in casa una volta alla settimana e portato a cuocere in un forno a legna non molto lontano, verso la Matrice. Il pane si manteneva fresco per tutta la settimana, ma anche dopo si mangiava bene e se diventava un po’ più duro e mio padre manifestava qualche lieve segno di fastidio, quel pane era avviato a divenire raffermo per essere utilizzato da mia madre per fare ‘a muddica[1] dai mille usi nella nostra cucina o, in inverno, il pane cotto, u panicottu.
La ricetta-non ricetta del pane cotto consisteva nell’ammollare in acqua salata bollente i bocconi di pane e poi scolare e condire nel piatto di portata con salsa di pomodoro, olio d’oliva, spezie e formaggio. Inutile dire che l’unico formaggio esistente era il pecorino, che non compravamo perché faceva parte del compenso pattuito con i pastori cui di anno in anno davamo in uso dei terreni seminativi, alternandoli alla semina del grano. Le pecore pascolavano tranquillamente e poi prima di pasqua arrivavano a casa agnelli, capretti e grosse forme di formaggi. Pagavano in natura e le terre non rimanevano mai abbandonate; ognuno traeva il giusto e c’erano poveri e ricchi, ma c’era lavoro e il pane caldo aperto e condito con olio e peperoncino era un simbolo forte di una trasversalità sociale, piena di originalità, di tradizioni mantenute, di spiragli di cambiamento.

‘U cannizzu

Il pane si preparava impastando la farina ricavata nel mulino del paese, ‘a Santa Cruci[2], dal grano dei terreni seminativi. Una parte del grano era destinata subito alla trasformazione in farina; il resto veniva portato in casa e custodito in uno stanzino dentro un cannizzu, grande e capiente stuoia di vimini o canne, facile da adattare al contenuto ed alla variabile quantità, e in cui rimaneva areato, evitando muffe e indesiderati insediamenti di insetti. Il grano stivato nel cannizzo era la scorta per l’inverno, da trasformare, per la maggior parte, in farina o da usare per gli usi domestici, come per esempio la preparazione della cuccìa. Non ricordo altre pietanze, per la verità, che si preparassero con il grano: non era usuale la pastiera, trionfo della dolceria napoletana, ma ho notizie di un maccu di frummentu in paesi dell’ennese: un piatto povero, tradizionale, consistente in una purea di grano condita con olio di oliva, sale, pepe e, a volte, con finocchietto selvatico; il grano veniva pestato grossolanamente in un mortaio. Sostituiva dignitosamente il pane e la pasta.

Era il 1950, la guerra era già lontana e le mafalde, i filoni francesi ed altre nuove forme di pane erano di grano tenero. Il pane veniva consegnato la mattina presto, caldo caldo, da un garzone, Fernando, simpatico istrione, il quale riceveva la comanda dal balcone, prelevava i soldi dal paniere calato prontamente dal balcone e ci infilava il pane richiesto. Oddio, le mafalde calde! La loro morte era in estate ficcate nella granita, come le brioches dagli spropositati capezzoloni e in inverno con la mortadella che li farciva, sciogliendovisi, quasi, al calore del pane fatto da poco ed ancora bollente.

Mafalda con la mortadella

Il pane di casa si impastava ‘na maidda, una vasca di legno con le sponde alte inclinate. Si scioglieva prima nell’acqua calda ‘u criscenti[3]assieme ad un pizzico di sale; dopo si versava nella farina preparata a conca nella maidda; si impastava il composto lavorandolo energicamente con i pugni. Appena l’impasto, a forza di braccia e di sudore, risultava sufficientemente amalgamato, si cominciava a scaniari[4]. Per questa faticosa operazione si usava ‘u scaniaturi[5] composto dalla sbria, una tavola di legno sagomata dai vaghi lineamenti femminili, e dallo sbriuni, un robusto asse di legno incavicchiato ad una delle due estremità proprio sul petto della sagoma. Esso veniva impugnato dalla parte opposta da una donna e veniva alzato e abbassato ritmicamente sull’impasto, schiacciandolo, mentre un’altra donna, seduta a cavalcioni sulla testa della sbria, lo girava, lo rigirava e lo sollevava a tempo senza perdere il ritmo. Dopo una buona mezz’ora di fatica, l’impasto era scaniatu, e allora si iniziava a preparare le forme, ‘a ‘mpanáre, come abbiamo detto in precedenza.

Maidda, sbriula, sbriuni e crivu

Artefice era donna Turidda, giunonica virago, che di nascosto fumava ed era fiera e altera. Aveva fatto il “mestiere” ed aveva il marito che scontava una lunga pena all’Asinara; il prigioniero, nell’inutile suo tempo decorava, ricoprendole di coloratissimo filo colorato, suggestive quanto inutili bottiglie di vetro, che poi di tanto in tanto mandava alla moglie, quasi come prova di esistenza in vita. Donna Turidda ne fece qualche volta omaggio a mia madre. Esse sopravvissero a lungo a disgrazie e trasferimenti, finché mia madre fu viva, poi le sue cose non so come finirono… Questa nostra fantesca era un donnone forte che usava solo la maidda; un’imponente sbria con un lungo e grosso sbriuni me li ricordo riposti nel magazzino a pian terreno, mai visti usare.

‘A maidda

Con l’arrivo del pane francese, a casa rimase solo la preparazione delle ‘mpanate, grosse focacce ripiene di verdura, e per il massimo godimento veniva preparata a grande richiesta di grandi e piccini ‘a ‘mpanata di ricotta. La ricotta di pecora veniva lavorata con la cannella o con il cacao e poi ci si farciva ‘a ‘mpanata. Tutte le forme di pane e le ‘mpanate’ venivano marcate con il timbro di mio padre, usato anche per sigillare le lettere. Il timbro conteneva le iniziali del suo nome P ed F, elegantemente costruite e intrecciate in un disegno decisamente liberty. Vado a memoria, perché il timbro non lo trovo più e credo di averlo regalato a mio primogenito, cui “naturalmente” detti cinque decadi addietro lo stesso nome di mio padre. Col timbro era impossibile scambiare il nostro pane, le nostre ‘mpanate o i nostri biscotti con quelli di altre famiglie. Inoltre le ‘mpanate venivano segnate anche per distinguere un ripieno da un altro: un conto è ‘na ‘mpanata di vruocculi o di sparaceddi[6] e un conto è ‘na ‘mpanata di sasizza[7] o di giriteddi[8] o – massimo della vita! – d’agniéddu[9] – com’è d’uso nel ragusano –, o di ricotta cunsata

Sparaceddi (broccoletti siciliani)

Si preparavano anche ‘i facci ‘i vecchia, sorta di pizze rustiche rozzamente rotonde, forti di sapore, con pezzi di acciuga, olive nere e cosparse di origano.

Facci ‘i vecchia

Non mancava mai ‘u canighiottu, il pane, cioè, confezionato apposta per i cani con la crusca[10], ‘a canigghia (dal latino canilia, che si dà ai cani). Io, pur non essendo cane, ne ero ghiotto, e, ad ogni panificazione, al ritorno dal forno, un tortino di canigghia mi veniva concesso. Era una conquista, ma non lo mangiavo mai in presenza di uno dei cani che abbiamo sempre avuto a casa. Non mi piaceva che pensassero che gli toglievo il pane di bocca!

All’origine del rito del pane c’era, naturalmente, lei, Donna Concetta, la vestale che conservava il lievito madre (‘u criscienti). Abitava vicino casa, al piano terra di una casetta ad un solo piano, e lei questo faceva: custodiva il cuore del pane, il segreto della riproduzione, il fuoco sacro che permetteva agli uomini di perpetuare il rito del pane, sacro anch’esso perché alla base dell’alimentazione, spesso unico elemento di essa (mangiare pani e cipudda, oppure pani e sciauru d’angiova equivaleva nei fatti a manciari pani schittu[11]). Ricordo ancora le donne chinarsi per raccogliere un pezzo di pane caduto per terra, soffiargli sopra e baciarlo, prima di metterlo in bocca e mangiarlo.

 

NOTE

[1]    Niente a che vedere con l’odierna polvere grossolana di colore equivoco di produzione industriale dall’ignoto processo di cui oggi; era invece il risultato di un paziente e coscienzioso accumulo di pezzi di pane raffermo, fino alla completa essiccazione, per essere, poi sottoposto a tritatura fine con l’apposito attrezzo (tritatutto Tre Stelle, se non ricordo male). ‘A muddica poteva essere atturrata (abbrustolita, al calore della padellina, ma senza olio, per carità!) per fare ‘a pasta cca muddica. Essendo la mollica di grana grossa, le cotolette venivano corazzate e la cottura della carne era più delicato, anche se fatta nelle padelle di ferro, che secondo legge divina non si lavavano mai, ma si pulivano con la “carta paglia”.

[2]    La piccola Chiesa della Santa Croce era posta ad una delle uscite del paese, in cima ad una lunga discesa, ed era presidio e monito ai contadini che uscivano dal paese per andare nelle campagne a lavorare o che da lì tornavano dopo una lunga giornata di fatica.

[3]    Il lievito madre.

[4]    Scaniari è propriamente il ridurre a pasta omogenea con opportuna manipolazione, amalgamare, impastare.

[5]    Il piano in legno dove impastare, una sorta di vasto e solido tagliere, in legno di faggio, nelle forme più piccole – senza sbriuni – serviva per usi non impegnativi.

[6]    Sono gli sparacelli, i broccoletti siciliani; diversi dal broccolo, soprattutto da quello catanese, dalla caratteristica coloritura viola.

[7]    La farcia delle impanate di salsiccia è costituita da salsiccia fresca, lasciata a sgocciolare e tagliata a pezzi. Si unisce in cottura a patate tagliate a grosse fette e salate, e a tocchetti di cavolfiore. All’opera vanno aggiunte olive nere (alivi niuri) snocciolate e quel che basta di buon pepe macinato.

[8]    Sono le bietoline (domestiche e, ancor meglio, selvatiche), che, crude, si condiscono con olio d’oliva; sale e peperoncino a gradimento, pomodori secchi tagliuzzati. Il tutto va sapientemente mescolato e racchiuso nel ventre dell’impanata. Sigillata, come da tradizione, l’impanata si affida al fuoco di legna aromatica.

[9]    È una preparazione tradizionale del ragusano immancabile per la pasqua. Al buon fine è necessario che agnello e patate siano agglassate a dovere (cotti non troppo) e che ci sia sufficiente sughetto di cottura. La pasta dev’essere lavorata con la sugna, perché abbia la delicatezza necessaria a ricevere sì tanta farcia!

[10]   Residuo della macinazione del grano, costituito da scagliette larghe e ben distinte

[11]   Pani schittu cala rittu: il pane senza accompagnamento (zitello!) va giù bel bello; pani accumpagnatu cala co surdatu: il pane accompagnato ha bisogno della guardia armata per calar giù ed essere digerito. Mangiare pane e cipolla è praticamente come mangiare il solo pane; e dire di mangiare “pani co sciauru d’angiova” equivaleva dire di mangiare il pane schietto, liscio, semplice. Basta ricordare la famosa scena di Novecento di Bertolucci con tutta la numerosa famiglia seduta ad una lunga tavola con alcune acciughe appese per la coda e tutti con un tozzo di pane che si poteva solo appoggiare all’acciuga salata per assorbirne un po’ di odore, ché nulla c’era da mangiare se non quel po’ di pane coll’odore dell’acciuga.

Appendice del 17 nov. 2021 Foto allegata al commento di Patrizia Maccotta (cfr).

2 Comments

2 Comments

  1. Patrizia Maccotta

    17 Novembre 2021 at 16:28

    Non ho resistito! Volevo aspettare la sera per leggerlo con calma. Ma ero in attesa di mia nipote che sarebbe arrivata, dall’università, alle 14.30 per pranzo ed avevo fame; gli scritti di Tano nutrono quanto il pane. E questo racconto è profumato, croccante, appetitoso! Ho ritrovato anche ‘na maidda, scoperta in uno dei locali del casale di Palombara – mi hanno spiegato cos’era, io non sapevo: stessa forma e stesso uso. Io, ormai, ci sistemo dentro dei gerani! (foto annessa all’articolo di base – ndr)
    Che bei ricordi! Ricotta, verdure, marmellate e non merende industriali preconfezionate. Apparteniamo ad una generazione cerniera e fortunata.

  2. Ornella Cacciò

    25 Novembre 2021 at 17:16

    Ebbene, ecco la tredicesima lettrice fedele… Con un certo ritardo ho letto i ricordi del rito del pane sia nel suggestivo racconto di Enzo Di Fazio che di Tano. Veramente coinvolgenti tutti e due: anche se non ho vissuto direttamente le stesse esperienze ho però ben impresse nella memoria tante immagini di donne che preparano, cucinano e trasmettono saper fare e amore tramite il cibo… Oggi, da ormai quindici anni, vivo nella casa che i miei bisnonni comprarono e abitarono appena fu costruita all’estrema periferia industriale della Roma di fine ottocento, e la cucina (seppur modificata) è pur sempre quella. Spesso mi sembra di rivivere i gesti delle donne che mi hanno preceduta e mi soffermo nella speranza di essere anche io un ricordo affettuoso per i miei amatissimi nipoti.
    Insomma Tano, quando dici “il viaggio che compio è sempre un viaggio (spesso sperduto o inafferrabile) alla ricerca di me stesso e dei miei dodici lettori perché abbiano con chi scrive il massimo della vicinanza” cogli nel segno: ci sei riuscito perfettamente!

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