Defunti

Dei commenti e delle pene. Lettera a Gabriella

di Tano Pirrone

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Ho letto il tuo commento, carissima amica Gabriella (permettimi…) e son rimbalzato fino all’articolo citato – il riferimento è a questo articolo di Gabriella Nardacci – ndr – , leggendolo più volte, come merita. Nel lontano 2015 – lontanissimo ormai più che Aldebaran – non lo avevo letto, ne sono certo, altrimenti lo ricorderei, come ricordo sempre le cose belle che leggo o vedo, ancor più di quelle che mi capitano lungo i sentieri dei miei giorni.

Bello, pieno di tenerezza e consapevole conquistata padronanza del tempo. In un luogo senza tempo, anzi di là del tempo, è più facile mettere insieme e dar loro forma e ragione ai sentimenti per il secondo atto “necessario” dell’esistenza: la morte, il verificarsi, cioè, dell’unica condicio sine qua non perché si verifichi la vita. Essa è possibile infatti solo alla condizione, spietata ma comprensibile, che abbia un termine; e, aggiungiamo noi umani dignitosi e consapevoli, abbia una sua dignità. Una vita cui spietatamente non sia riconosciuta l’alta dignità che le appartiene, è una non vita, morte degradata e continuata, che nessun dio può aver pensato e inflitto come pena.

Come potrai immaginare, il mio articolo del 2 novembre ha aperto con alcuni amiche e amici, separatamente, e anche in solitaria confidenza, ragionamenti sulla morte e confessioni sulle paure e le angosce che ci portiamo dietro in conseguenza della privazione di un essere a noi caro, che esso sia umano o animale, non importa, perché comunque vas d’elezione dei nostri affetti e delle nostre speranze. Si finisce per parlare di quello che l’orrenda lingua dei nostri giorni chiama elaborazione del lutto (ma dietro la lingua giace l’altrettanto orrenda concezione della vita nella società dei consumi e dell’egotismo assoluto: non sono credente, anzi ateo sbattezzato, roba da dar per pasto alle belve feroci, ma questa società – senza valori, prona davanti al grappolo di falsi dei, del successo a tutti i costi, dell’apparire anche se come mascheroni ributtanti, dell’Ego smisurato e ripieno di vuoto assoluto – questa società non l’amo e la combatto per come so e come posso).

Bisogna avere confidenza con la morte: ecco i bambini che giocano fra le tombe e ascoltano le storie degli assenti per custodirne il ricordo; mantenere un rapporto fra presenti e assenti, in modo che si costruisca sin da piccoli un legame con quel passato, con la Storia abitata dalle persone che furono. Forti di questa consapevolezza, lasciarli andare… i morti bisogna lasciarli andare! Sapranno poi le ragioni più intime del nostro inconscio se richiamarne la memoria e la presenza. Ma servono accordi precisi e accortezze previdenti.

Volver (Almodòvar; 2006),Sequenza iniziale al Cimitero

È un atteggiamento letterario, forse; una consapevolezza acquisita attraverso lo strazio di sé e delle persone prossime. Non saprei dire, so solo che la frase è “bella” e contiene un’idea feconda: qualunque cosa sia stata non lo è più, almeno così come l’abbiamo vissuta. Diventa lentamente un’altra cosa, si trasforma in un senso di vuoto, di privazione, di mancanza, d’incompletezza che non impedisce però di continuare a vivere e a riprodurre la propria vita. Tutto ciò che è stato ed è stato fatto volar via torna, ma torna in modo non più doloroso o non soltanto doloroso, meglio. La privazione in questo caso diventa aggiunta, crescita: ciò che ci è stato tolto aveva ampliato il nostro essere, aveva allargato la nostra base vitale e per non so quale mistero, quando torna in forma di memoria o continua a vivere in modo latente, ma sensibile, non occupa più quello spazio di prima, che non s’è ristretto, sparito, dissolto; si compie come un allargamento di sé, un ampliamento della memoria e della sensazione. Ci si sente più larghi, più ampi, più capienti.

Mi trovo di tanto in tanto, nel cuore della notte con la pena per la perdita dei miei fratelli; a singhiozzare per la mancanza di Bam, o per il ricordo lontano di mio padre, verso cui ho in questi ultimi anni, aperto un confronto sincero, riuscendo a spezzare il velo che divideva le mie ragioni dalle sue, ed ora ho grande pena per quello che non gli ho dato e che si aspettava e grande pena anche nei miei confronti per non essere stata la persona che lui si aspettava che fossi e neanche, in fondo, la persona che io avevo sognato – o sperato – di essere. Non si piange più, in questo caso per la lontana frattura e la persistente separatezza, ma si piange per noi stessi, per avere perso le opportunità che ci erano offerte e che non abbiamo saputo, potuto, voluto afferrare. Non c’è più dolore né affanno in quel pianto, ma pacificazione, con tutto e soprattutto con se stessi.

Tre locandine perDepartures (Okuribito), un film di Yojiro Takita del 2008), scelte per culture diverse

Sulla diversità dei rapporti che si hanno con i propri morti, una mia amica mi ha scritto: «”Questa soglia divide due mondi, la pietà li ricongiunge”. Così c’è scritto all’ingresso di non so più quale cimitero. Sono rimasta stupita della differenza fra i vostri morti ed i nostri, Tano; sono antropologicamente molto diversi: ci sono morti montanari, morti asburgici e morti borbonici? I nostri non tornavano, non erano così presenti nella nostra vita come quelli che tu descrivi nel tuo bellissimo racconto».

Così ho risposto: «I nostri morti sono diversi dai tuoi! Certo, perché le culture di base, originarie sono diverse: io vengo dai greci e attraverso i romani sono stato normanno, arabo, ebreo e aragonese: tutto mi è rimasto dentro, miscelato, sedimentato, incrostato; tutti noi siamo ciò che sono stati i nostri padri e i padri dei nostri padri. Lo siamo inconsapevolmente, finché un giorno, una fessura nel muro che cinge il nostro territorio si apre una crepa, piccola, sottilissima, che nei giorni e negli anni si allarga e permette che i due mondi si annusino ed imparino a convivere, conoscendo l’uno le ragioni dell’altro. Assumendo l’uno le forme dell’altro. Non credo all’aldilà e non credo negli dei e nel soprannaturale: ma questa è storia dell’uomo, che non si scrive solo sui libri, ma prima e soprattutto nelle piccole smisurate pagine del nostro essere».

Immagine di copertina. Cimitero di Ponza. Foto di Cristina De Paoli

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