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I morti pazienti e cortesi si facevano di lato per farci giocare

di Tano Pirrone

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Notte agitata. Avevo sperato che così non fosse, ma inesorabilmente lo è stato; il tentativo di restare sveglio è diventato una lotta, che ho ancora una volta perso. Non sono abituato a restar sveglio ed il sonno mi ha trascinato in un dormiveglia agitato e confuso, come per la febbre alta, in cui non sono più riuscito a distinguere fra realtà ed impressione. Non avevo nessuna certezza che quei pochi minuti in cui mi sono sentito e creduto sveglio, lo fossi, poi, realmente. Era indispensabile che rimanessi all’erta a guardia del salotto, per controllare chi sarebbe entrato a portare i giocattoli. Dal mio letto potevo vedere appena la porta. Avevo immaginato che chiunque avrebbe portato i regali, da là doveva passare. Per forza. Avevo escluso l’uso della porta che dalla camera da letto di mamma e papà dava sull’ampio salotto.

Questo era un locale ampio, di rappresentanza, il vero classico salotto, che si apriva soltanto per le visite importanti. Era arredato con divani, poltrone e pouf di uno stile fin de siècle coloratissimo e audace: in perfetta armonia col gusto del tempo in cui il salotto e tutta la casa erano stati progettati e realizzati, negli anni a cavallo dei due secoli, quando mia nonna Nella sposò mio nonno Gaetano. Li chiamavano per celia, la elle con la i: mia nonna era alta, bellissima, con un’ombra di tristezza sul volto, che la seguì sempre. Portava la testa inclinata, leggermente, come un vezzo, e sembrava un ritratto di Modigliani. Mio nonno era un bell’uomo, più piccolo di statura, con un gran paio di baffi curatissimi. Stettero insieme non molto tempo, poi nonno Tano morì, giovane, lasciando nonna Nella sola, con cinque figli. Mio padre, Ciccio, era il secondo; Turiddo il primo, poi c’era Ciùzza, la sorella più amata e Giovannina e infine la poco simpatica Eugenia, tirchia, malevola, cattiva. Mio padre era del 1907, Turiddo del 1904.

Ma torniamo al salotto, cui feci la guardia tutta la notte senza scoprire nulla di quello che mi interessava: completavano l’arredo due grandi bellissime étagère nere con grande specchio; panciute possedevano e conservavano al loro interno decine di libri, la maggior parte di scuola di mio padre e dei miei zii; libri di tutti generi, che furono la mia palestra, il mio campo di allenamento per leggere, sognare e viaggiare nel tempo e per il mondo. Molti li ho conservati ed ancora li posseggo con cura. Fra essi il libro che lessi per primo, L’isola misteriosa di Jules Verne. C’erano anche libri di greco, incomprensibili, ma che mi dettero la consapevolezza che esistevano lingue e scritture diverse da quella mia e dei miei parenti, scritture strane che certo nascondevano misteri a non finire, vite avventurose, vittorie e sconfitte. Non pensavo certo ai libri d’amore, essendo troppo piccolo per questi argomenti. C’erano trattati di zoologia e di botanica, atlanti storici, libri di lettura. Insomma un giacimento che mi servì per anni per crescere ancorato alla forma libro e al mistero della scrittura e della narrazione.

Poi c’era, nel salotto, un grandissimo ritratto fotografico di mio nonno, una gigantografia ante litteram che dominava tutto l’ampio locale e certamente influiva sull’umore delle persone, che nel salotto erano ricevute. All’alto soffitto era appeso un grande lampadario di vetro di Murano, grande, a molti bracci, riadattato all’uso della corrente elettrica, ma nato per ospitare le candele…
Il salotto affacciava sul corso Vittorio Emanuele, ma che tutti in paese chiamavano coll’antico nome ’a chiazza, poco più su c’era la piazza vera e propria, l’antico piano del castello, e per questo chiamata ’u chianu ’a chiazza’.

Quando raramente si parlava del nonno si veniva a sapere che in campagna, nell’amata contrada di Passaneto, l’aveva colto un temporale e un fulmine l’aveva quasi colpito, atterrandolo in modo così violento, da portarlo da lì a poco alla tomba. Non ricordo molto altro. Le curiosità, sul passato, crescono con l’età, ma con l’età si resta sempre più soli e non si ha più nessuno cui chiedere informazioni o confrontarsi sulla veridicità dei ricordi. Triste. Questo dovrebbe insegnarci a conservare i ricordi perché poi possano essere trasmessi, diventare legame, fune, destino; mai catena, ché la catena costringe e affonda, alla fune, invece, ci si aggrappa e spesso ci si salva.

Nonno Tano, morto, avrebbe dovuto, nella notte fra Ognissanti e il due novembre, aprire la fila degli altri parenti morti, comodamente stanziati giù al cimitero, nella bella cappella ricoperta di formelle di terracotta di Caltagirone, costruita appositamente dopo la disgrazia del nonno, sul modello di un’analoga bellissima cappella nel cimitero monumentale di Genova. Tutte le famiglie “buone” avevano la cappella, quelle più “basse” le tombe in marmo; e poi, per gli altri, le semplici tombe col piccolo tumulo in terra ed una semplice croce col nome e l’alfa e l’omega.

Ognuno dei morti, per regola non trasgredibile, portava un regalo; i morti erano tanti e quindi tanti erano i regali che ci aspettavamo e tanti e belli quelli che trovavamo. Uso il plurale, perché la favola dei morti durò anni, ma, man mano ch’io crescevo, l’attesa e lo stupore, la felicità del regalo scemavano per legge di natura, ma la gioia del ritrovamento, della truvatura, era contagiosa e rimaneva quasi intatta anche con l’età.

Altro che babbunatali con le renne o la ridicola befana: a noi piccoli siciliani erano i nostri morti a portare i regali, rinnovando così ogni anno il ricordo della filiera degli avi, sempre benevoli, perché una volta all’anno si manifestavano, ma poi sempre vicini ci stavano e noi sentivamo come propria questa lunga catena di vivi e di morti che era la nostra storia, la storia della nostra famiglia.

Quando qualcuno dei cari moriva i lutti duravano anni ed anni, e la fine di un lutto spesso si legava con un nuovo lutto; è così che io ricordo le mie nonne sempre vestite di nero, col grembiule e, quando uscivano di casa, con lo scialle, nero, sul capo. I morti c’erano, ma non andavano mai completamente via, restavano con noi, legavano l’un l’altro i ricordi indotti dai racconti su episodi della loro vita, che erano anche lezioni di comportamento. Erano morti in tanti ma andavano via definitivamente solo quando i loro cari più vicini li raggiungevano. Allora si davano il cambio: potevano andar via e lasciare il necessario presidio.

Questo legame tra morti e vivi si esaltava in uno degli spettacoli più belli cui abbia mai partecipato: la mattina della scoperta dei regali si andava – tutti! -, al cimitero. Arrivavano i nostri parenti da Catania e da Messina, i nostri cugini poco più grandi, che già fumavano e usavano la brillantina; la gente diventava folla, tantissimi i bambini: tutti portavano i più piccoli a quest’incontri con i propri morti; e tutti i bambini avevano almeno un giocattolo, aerei che venivano tenuti in altro da braccine ancora esili, stupefatte bambole ricciute, pistole, fucili; insomma, non c’era bambina o bambino senza regalo, e tutti giocavano con gli altri, nei viali del cimitero, dove i morti pazienti e cortesi si facevano di lato per farli giocare.
La mattinata passava presto, la frenesia del gioco e la gioia della ricchezza di un nuovo giocattolo lentamente viravano in fame, e per tempo si faceva ritorno alle case, dove aspettava un pranzo di festa, non certo un triste cùnsulu.

Un anno, ero già grandicello, resistetti al sonno e vidi due ombre entrare all’alba, furtive in salotto: mi parvero mia madre e mio padre… Rinchiusa la porta cominciarono a sistemare i regali e i dolci… poi all’ora canonica mi fu permesso di entrare, ma quell’anno fu, per me, l’ultimo anno, non ci sarebbe stato più il magico mistero dei propri morti che portavano regali ai bambini.
I bambini crescendo avevano ormai dentro di loro il ricordo trapiantato di questi morti, che non li avrebbe mai più lasciati. Fortunatamente.

1 Comment

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  1. Gabriella Nardacci

    7 Novembre 2021 at 17:32

    Voglio ringraziare Tano (leggi qui) e Tea (leggi qui) per aver raccontato con dovizia di particolari, le usanze della loro terra natia in merito al giorno dedicato ai nostri cari “morti”.
    Tali usanze somigliano a quelle moldave. Ne parlai, tempo fa, in un articolo dal titolo “Assenze presenti” pubblicato su Ponzaracconta nel 2015 e che dedico a Tano e a Tea come risposta più esaustiva. Sono usanze ricche di poesia e incredibilmente gioiose e testimoniano come le azioni dei vivi, molto spesso, ci riconnettono con i nostri cari facendoceli sentire vicini quasi fisicamente.
    Purtroppo a volte è difficile non avere la speranza che potrebbero riapparire da un momento all’altro come invece, a volte accade con le persone scomparse, ma dentro di noi, sono certa che un moto di tenerezza ci sorprende quando pensiamo che, forse, ritorneremo a stare insieme a loro.
    Non è da molto che riesco a parlare della “morte” in modo così ‘sereno’. E’ un argomento come un altro, ma confesso che ho impiegato molti anni prima di poter impiegare questa parola nei discorsi come nei miei scritti…In “A malapena si vede l’isola di Ponza” [un romanzo pubblicato dall’autrice del commento – ndr] esprimo molti concetti riguardo a questo tema.
    La morte fa rabbia e la nostalgia di un futuro lontano quanto quello del passato, ci stringe il cuore. Gaudeamus igitur!
    Grazie Tano e Tea per queste testimonianze.
    Chiudo questo commento con una frase che Francesco De Luca cita nella sua Epicrisi: “Una vita senza ricordo è una vita persa”.
    Niente di male ne’ di edulcorato sentimento occasionale, se ci aiuta a sentirci meno soli.

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