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Scuola (7). La questione del nome. “Nomina sunt consequentia rerum” Inaugurata da alcuni governi degli ultimi venticinque anni, una certa ridefinizione dei servizi forniti dallo Stato repubblicano – a cominciare dal nome – è diventata comune e non più messa in discussione, e viene accettata con indifferenza o tranquillamente trascurata, evidentemente raffrontata ad altri, incombenti e ben più gravi problemi che lo affliggono. Così è stata adottata la teoria di vendita del nuovo prodotto: si è preso il Ministero della Sanità, un bel nome che in chiaro dichiarava l’intenzione e l’obbligo costituzionale di garantire a tutti il diritto alle cure come servizio pubblico, gestito dallo Stato e pagato con l’apposito contributo dei cittadini che pagano le tasse e lo si è trasformato in qualcosa di simile ma niente affatto eguale, come il Ministero della Salute. Non sfuggirà al lettore il dettaglio che se la Sanità è un obiettivo da perseguire con le cure, la Salute è invece la condizione data di chi sta bene e non l’ha ancora persa, magari per mancanza di quelle stesse cure. Non è stata infatti solo una innocua operazione di semplificazione poiché, a ben vedere, si è di fatto scambiata l’effetto sperato dell’esercizio di un diritto e di un impegno collettivo alla cura (la sanità) con lo stato per molti versi imponderabile delle condizioni fisiche legato alle responsabilità dei cittadini (la salute). Questo ha permesso ad alcuni assessori alla ‘salute’, appunto, di dichiarare in piena pandemia, che il sevizio pubblico di ospedalizzazione dei malati non poteva essere ‘pensato’ come ‘servizio per tutti’ né, tantomeno secondo la sua personale visione, dello stesso livello qualitativo per tutti i cittadini senza distinzione di rango e di censo (sic!). Anche la scuola ha subito la stessa sorte: da Ministero della Pubblica Istruzione, con le medesime modalità è stato trasformato in Ministero dell’Istruzione. In questa prospettiva l’istruzione sarebbe un diritto del cittadino nel senso che ciascuno ha il diritto di scegliere la propria e soprattutto di vedersela garantita dallo Stato con congrui finanziamenti e sostegno economico alle strutture private cui si rivolge. La Costituzione invece garantisce il diritto all’istruzione e alla formazione privata, purché senza oneri per lo Stato, in questa nuova visione (da qui il cambiamento di denominazione del Ministero) gruppi di cittadini riceverebbero una sorta di rimborso dallo Stato per la sua incapacità di garantire loro una formazione che sia esattamente coincidente con i propri dichiarati valori religiosi, morali, sociali ed economici. Se con la Pubblica Istruzione si voleva rafforzare il principio che formazione e cittadinanza, veicolati dall’organizzazione pubblica, fosse compito e dovere dello Stato, che educa i propri cittadini alla parità formale, al rispetto delle regole di convivenza e alle pari opportunità di specializzazione, carriera e responsabilità professionali, con l’Istruzione in cui pubblico e privato si equivalgono, sono entrambe a carico dello Stato ma offrono servizi differenziati: accedere ad una particolare opportunità di istruzione secondo le proprie capacità di contribuzione aggiuntiva delle famiglie si ribadisce il principio che specializzazione, carriera e responsabilità di gestione siano riservati per legge naturale a chi se lo può permettere, in barba a tutti i propositi costituzionali e a barbosi principi morali tipici di quelli che si considerano, evidentemente, decadenti forme statuali come quelle democratiche e repubblicane. [Scuola (7). La questione del nome – Continua]
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Intendo soffermarmi un po’ sul seguente passaggio della esauriente e lineare esposizione del dr Santoro: “La Costituzione (…) garantisce il diritto all’istruzione e alla formazione privata, purché senza oneri per lo Stato, …”
L’autore fa riferimento all’art. 33 commi 3 e 4 della nostra Costituzione :
– Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza oneri per lo Stato.
– La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.
In prima battuta i Padri Costituenti ci hanno assicurato che lo Stato non deve dare contributi alle scuole private.
In seconda battuta lo Stato assicura piena libertà agli istituti privati, nonché parità di trattamento, per gli alunni che le frequentano, rispetto agli studenti delle scuole statali.
Secondo me, in tutto questo c’è una “contraddizione in termini” e qui mi sovvengono le “famose” circolari del Provveditore e del Ministero – dal contenuto spesso contraddittorio – per cui chiedevo lumi al carissimo amico Adolfo Gente, cui ho fatto cenno nel commento alla seconda parte del suo articolo illuminante su Ponzio Pilato.
Eh sì, perché è proprio il quarto comma – secondo me – che fornisce su un piatto d’argento “la scappatoia” alle scuole private di chiedere sovvenzioni allo Stato, per coprire almeno le spese da sostenere per gli stipendi e oneri relativi dei docenti da loro assunti. In caso contrario le famiglie dovrebbero sobbarcarsi un onere non indifferente.
Ci sarebbero poi da spulciare i vari articoli del Concordato tra Stato Italiano e Chiesa Cattolica in merito a tale argomento.
Certo, senza il Comma 4 di cui sopra, i nostri Padri Costituenti sarebbero stati ben più chiari, in materia di istruzione privata, “lavandosene definitivamente le mani” alla maniera dell’illustre personaggio dell’antica Roma (ma è solo una mia impressione, s’intende)…