Presentato da Antonio Marciano
Per la prima parte (Michele Serra): leggi qui
Dalla presentazione:
Su Robinson, supplemento a la Repubblica di sabato scorso 21 novembre è uscita una tripletta di articoli, uno più interessante dell’altro, sulla dicotomia città – campagna (ma ci sono anche le isole… dove le mettiamo?).
Eccoli:
– La natura ci salverà se noi la salveremo
di Michele Serra
– Una città invisibile chiamata Europa
di Renzo Piano
– Questo paese di santi, poeti e provinciali
di Aurelio Picca
Un ingegnere venuto dal paese
di Antonio Marciano
Come ingegnere – laureato all’Università di Pisa – ho iniziato a lavorare nel 1970 (e ho continuato fino al 2004), in molti campi di applicazione della mia disciplina: ingegneria meccanica e Snam Progetti di San Donato milanese, gruppo Eni, in un’azienda tessile, nei trasporti, nella telefonia.
Ho contribuito a diverse realizzazioni utili, ma alcune proprio non lo erano.
Sarà che non sono mai stato un “cittadino” (sono originario di Roccasecca, un paesino del frusinate, per infanzia e adolescenza, fino al liceo); ogni volta cercavo di far capire che alcune opere non erano necessarie e si poteva risparmiare; ma invano: era un periodo in cui si costruiva per il piacere (e l’interesse) di costruire.
Ho deciso successivamente di passare – sempre nell’ambito del mio lavoro tecnico -, al settore della manutenzione. Un cambiamento vissuto con entusiasmo. In questo campo mi son potuto rendere conto di quante vecchie strutture definite “obsolete” andavano messe in sicurezza o addirittura rimosse. Mi sono persuaso che prima o poi sarebbe arrivato il redde rationem. Cosa che sta succedendo negli ultimi anni e nel peggiore dei modi: crolli, dissesto del territorio, catastrofi ricorrenti.
Se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, il Coronavirus, oltre agli enormi danni di cui ancora non si riesce a valutare appieno la portata, ha costretto a rivedere un modo di vivere e di agire. Il lockdown ci ha confinati tutti sul divano; giocoforza abbiamo cominciato a praticare un tioo di lavoro “da remoto” (il cosiddetto smart working).
Trovo significativo che “da tecnico” l’architetto Renzo Piano scriva queste parole: “la risposta non può essere tecnica, deve essere per forza politica, sociale, scientifica, in una parola deve essere umanistica”.
Il visionario senatore Piano ha individuato per il futuro una“Città Europa”.
La speranza che condivido è che tutti i popoli d’Europa, a mezzo di opere di artisti “illuminati” come lui, vengano indotti a considerare la loro patria come un ampio territorio, o un insieme di luoghi ben collegati, di incontro e condivisione, dove vivono, con pari dignità, unioni di cittadini, indipendentemente dalla eventuale cecità dei governi che li rappresentano: Cittadini d’Europa.
Gli effetti del Buon Governo in città, Ambrogio Lorenzetti, Palazzo Pubblico, Siena (1338-1339)
Una città invisibile chiamata Europa
di Renzo Piano
– Immaginate un mondo dove non c’è differenza tra urbano e rurale, centro e periferia. Esiste: basta progettarlo
– La distanza fisica e mentale a cui ci costringe il virus è disumana Vivere distanziati è vivere di meno. La collettività è il cemento civile. Ci dobbiamo quindi arrendere? No, e la risposta non può essere quella di rinunciare
– Come dice il principe Myskin di Dostoevskij: la bellezza salverà il mondo. Essa è l’aspirazione degli esseri viventi perché è capace di renderci migliori. Magari non tutti assieme, ma una persona alla volta
La storia del guerriero longobardo Droctulft è bellissima.
Partì dalle selve e dalle paludi del nord per conquistare il mondo e arrivò a Ravenna. Lì accadde qualcosa di straordinario, rimase incantato dalla sua bellezza, a lui sconosciuta, e fini per difendere la città nemica che era partito per distruggere.
D’altronde, l’idea di città non esiste in natura, è una grande invenzione dell’uomo che scaturisce dal bisogno di stare insieme. E lui non ne aveva mai vista una.
Borges racconta che Droctulft improvvisamente vide strade, templi, giardini, archi, stipiti e finestre. Aveva forse già visto alcune di quelle cose, ma mai così tutte assieme. Così tante, così diverse, e così in bell’ordine.
E fu folgorato da quella rivelazione, la Città.
Venne conquistato da qualcosa che non capiva, che non poteva capire, ma che si rivelò ai suoi occhi con la forza della bellezza.
C’è qualcosa nell’idea di città, nella sua essenza stessa, che la rende necessaria. La città è la polis e non può essere cancellata: è un’invenzione troppo antica e importante ed è sopravvissuta a qualsiasi minaccia, al terrorismo e alla violenza, all’inquinamento e alla peste. Ha sempre vinto lei. E questa sua bellezza ancora una volta la salverà.
Ma la città a cui penso io è l’Europa. Non intesa come l’insieme delle città europee, bensì essa stessa, l’Europa, come un’unica grande Città, sconfinata e diffusa, un susseguirsi di campagna, borghi, fiumi, boschi, ponti, mari e laghi, un mondo costruito, antropizzato, vissuto e civile.
Dal Mediterraneo al Mare del Nord, dall’Est che sconfina in Medio Oriente alle coste dell’Oceano Atlantico. È difficile, in questa terra, trovare un solo luogo dove la distanza tra centri urbani, cittadine, borghi e villaggi sia superiore a un’ora di strada.
È la città aperta, la città territorio. Esce dai suoi confini e feconda la campagna, da cui, a sua volta, viene fecondata. È scambio di desideri, merci, parole, culture e ricordi.
La mia è una città diffusa dove tutto, in un modo o nell’altro, è fertile. Io sono cittadino europeo, per indole e per esperienza vissuta. E l’Europa è il mio elemento naturale.
E l’unica cosa che in questa grande città, che è l’Europa, non si trova è il deserto. D’altronde l’antitesi della città non è la campagna che è fertile, coltivata e addomesticata dalla mano dell’uomo, bensì il deserto, è lì che si generano i mostri. Deserto come luogo fisico e come solitudine esistenziale. È vero, spesso anche le città hanno i loro mostri, ma si possono svelare, capire e affrontare.
Nelle Sacre Scritture la città, luminosa, liberata e ospitale, è dove si attua il sogno millenario dell’umanità, che è la pace. La città perfetta dei fedeli descritta nell’Apocalisse ha dodici porte ed è lunga e larga più di dodicimila stadi, vale a dire più di 2000 chilometri, come l’Europa per l’appunto.
Un’unica città connessa da idee e da una rete di trasporti pubblici su rotaia ad alta, media, bassa velocità, fino alla velocità metropolitana e urbana, tutto alimentato con energia elettrica.
Queste saranno le sue strade, e occorrerà anche costruire ponti.
Penso a una campagna che si attrezza e diventa un po’ più città e a una città più verde che diventa un po’ più campagna.
E poi penso a una periferia che non sia più quella zona grigia dove la città perde i suoi valori e la campagna non è ancora campagna.
Io ho passato una vita a costruire luoghi pubblici: scuole, biblioteche, musei, teatri e non so cos’altro ancora. E poi strade, piazze e ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori, le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi dove ci si confonde gli uni con gli altri, dove le differenze spariscono e la diversità diventa un valore. Luoghi di urbanità che celebrano il rito dell’incontro, dove la città è intesa come civiltà. Posti per un mondo migliore, capaci di accendere una luce negli occhi di coloro che li attraversano.
Questi luoghi sono tutti chiusi oggi, a causa del Covid, e questo mi fa soffrire. La distanza fìsica e mentale, a cui ci costringe il virus, è disumana. Perché vivere distanziati è vivere di meno. Abbiamo bisogno della collettività che è il cemento del vivere civile. Ci dobbiamo quindi arrendere? No, e la risposta non può essere quella di rinunciare alla città.
Anche quando progettai la torre del New York Times a Manhattan, il primo grattacielo dopo la tragedia dell’11 settembre, mi interrogai. Mi chiesi come rispondere. Rinunciare al nostro modello di città, blindarci sottoterra? Tornare nelle caverne? Oppure difendere la nostra civiltà e la città che ne è l’espressione? Non si poteva rinunciare, e così si scelse la trasparenza e l’apertura.
Credo che la risposta alla pandemia debba avere lo stesso coraggio, che la risposta sia un nuovo modo di abitare gli spazi pubblici, nella città dischiusa e aperta.
Questo virus è diabolico perché impedisce il contatto con la gente. La creatività è condivisa. È un po’ come giocare a ping pong, ci vogliono gli altri. E quasi sempre l’ispirazione sgorga dalla realtà: il sistema migliore per avere idee è quello di guardarsi attorno e osservare la realtà, darle respiro.
A uno come me, che vive dell’idea di creare spazi dove si celebra il rito dello stare insieme, del mescolare le proprie esperienze, questo vuoto infligge una profonda tristezza.
La risposta non può essere tecnica, dev’essere per forza politica, sociale, scientifica, in una parola dev’essere umanistica.
Difatti c’è anche, nella Città, in questa mia città aperta e diffusa, un’altra bellezza più profonda che è quella umana fatta di energia, solidarietà passioni e desideri. Quella fatta di giovani carichi di speranza e voglia di un futuro migliore, quegli stessi giovani che, con un lungo cammino davanti, hanno il compito di salvare la Terra e ai quali ci affidiamo per intravedere le cose del mondo che sarà.
Una bellezza che non è intesa in maniera frivola e superficiale, ma dove l’invisibile raggiunge il mondo visibile. Questo tipo di bellezza credo possa essere il vero antidoto alle barbarie, anche a quella del virus.
I greci hanno coniato una parola, kalokagathòs, che unisce l’ideale di bellezza al valore morale. Così come in tutte le culture europee.
Noi italiani diciamo una bella persona, pensando alla sua essenza e non al suo aspetto. Si parla di una bella azione per dire che è buona, generosa e coraggiosa. Si dice bell’esempio, bell’idea, bel gesto. Gli inglesi, per indicare una persona intelligente, usano l’espressione a beautiful mind. In spagnolo si dice belleza, in tedesco Schönheit. In nessuna di queste lingue bello significa semplicemente bello, vuole dire sempre anche buono. Anche in russo la parola krasotà definisce qualcosa di non visibile, come disse il principe Myskin di Dostoevskij: la bellezza salverà il mondo.
Essa è l’aspirazione degli esseri viventi perché è capace di cambiare le persone in persone migliori, le città in città migliori e infine i cittadini in cittadini migliori.
Magari non tutti assieme, ma questa bellezza salverà davvero il mondo, e lo farà una persona alla volta.
The NY Times Tower (2004-2007). By Renzo Piano
Immagine di copertina (da Robinson) – La primavera intitola Sun in May (1911) il dipinto dell’artista polacco Józef Mehoffer (1869-1946) tra gli esponenti della Giovane Polonia, avanguardia sviluppatasi tra il 1890 e il 1918
[Da Robinson – Supplemento a la Repubblica del 21 novembre 2020]
[Robinson “triplete”. La città e la campagna (2) – Continua]