di Sandro Russo
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Leggo che mai come in questi giorni di allarme e allerta per il coronavirus sono andati a ruba in libreria romanzi di solito poco frequentati, come La peste di Camus (1947) e Cecità di Saramago.
Nel primo si racconta di una epidemia di peste che si manifesta inopinatamente a Orano (Algeria), in “un imprecisato momento degli anni quaranta”: descrizione realistica di una vera epidemia e al contempo oscura metafora del Male e del nazismo incombente (dal romanzo, il film omonimo del regista argentino Luis Puenzo (1992).
Cecità di Saramago (Ensaio sobre a Cegueira, letteralmente Saggio sulla cecità, 1995) è un saggio antropologico e sociale in forma di romanzo, in cui il fattore destabilizzante è una malattia sconosciuta e altamente contagiosa che rende ciechi. Una cecità in cui tutto è bianco, invece che nero [dal romanzo un film: Cecità (Blindness) del 2008 diretto da Fernando Meirelles con Julianne Moore e Mark Ruffalo]. Ma la diffusione del morbo determina una regressione dell’umanità – e del gruppo urbano di cui si seguono le sorti – a livelli di ferinità e violenza come nei migliori libri e film di fantascienza e serie tv correlate. Anche se Saramago non è uno scrittore di fantascienza.
L’unica a mantenere la vista, la Moglie (il personaggio non ha un nome né nel libro né nel film) che caricherà su di sé l’orrore di quanto la circonda offrendo poi la propria disponibilità quale guida a una possibile resurrezione
Da famelico cultore di tutta la fantascienza (tra cui ovviamente il sottogenere fs catastrofica) negli anni adolescenziali e poi giovanili, ho tratto una conoscenza ampia delle varie modalità in cui il genere umano è messo alla prova da una catastrofe planetaria.
Da cui direttamente discende questo scritto, tra letteratura e cronaca, tra immaginario filmico e realtà di questi giorni in qualche modo “irreali”: il nostro presente eppure cose che mai avremmo immaginato potessero accadere davvero.
Anche per questo ero stato attratto, compilando la Rassegna Stampa giornaliera da Latina Oggi, da una delle ottime schede di Stefano Testa che, sul giornale del 2 marzo, recensisce e sintetizza un libro del 1996 (riedizioni del 2002, e nel 2017) di Klaus Bergdolt: La peste nera e la fine del Medioevo. Nell’articolo sono messe in bell’evidenza le implicazioni e le analogie – ma anche e soprattutto per le differenze che il lettore può fare – con la situazione attuale.
Il file .pdf (due pagine) di Stefano Testa si può leggere (e scaricare) qui: S. Testa. La peste nera e il mondo cambiò per sempre
Il saggio delinea la storia e le conseguenze della più grande “pestilenza” patita dall’umanità in epoca storica che, partita dall’Asia, ha interessato Europa, Nordafrica, Caucaso nel XIV secolo tra il 1347 e il 1353.
Secondo studi moderni uccise almeno un terzo della popolazione del continente, provocando verosimilmente quasi 20 milioni di vittime
Terminata la grande epidemia, la peste continuò comunque a flagellare la popolazione europea, seppur con minor intensità, a cadenza quasi costante nei secoli successivi. La terribile peste di Milano del 1630, descritta da Manzoni nel XXXI capitolo de I promessi sposi, fu una delle sporadiche riaccensioni della prima epidemia, mai completamente debellata.
Provocata da un batterio trasmesso dai ratti agli uomini attraverso le pulci. Il batterio Yersinia pestis – non un virus, quindi – fu isolato solamente nel 1894. Se non trattata adeguatamente – e nel XIV secolo non era conosciuto alcun modo per farlo -, la malattia risulta letale dal 50% alla quasi totalità dei casi a seconda della forma con cui si è manifestata: bubbonica, setticemica o polmonare.
Di epidemia in epidemia, come non ricordare il colera di Venezia nel libro di Thomas Mann La morte a Venezia (Der Tod in Venedig, pubblicato nel 1912) e il capolavoro di Visconti (Morte a Venezia, del 1971), ambientato in una Venezia fatiscente del 1911: minima modifica del titolo ma rilevante spostamento di significato, di cui abbiamo già scritto (leggi qui).
Fantasia e realtà; attualità e metafora inestricabilmente connessi… e veniamo ad un centinaio di anni fa (quasi un anniversario!)
L’influenza spagnola fu una pandemia influenzale, insolitamente mortale, che fra il 1918 e il 1920 fece una vera strage, arrivando a infettare circa 500 milioni di persone in tutto il mondo, inclusi alcuni abitanti di remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico, provocando il decesso di 50-100 milioni su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi.
La letalità le valse la definizione di più grave forma di pandemia della storia dell’umanità: ha infatti causato più vittime della terribile peste nera del XIV secolo (da Wikipedia).
Non sono certo un apocalittico, ma ho provato ad immaginare come deve essere stata vissuta da un’umanità stremata dalla Grande Guerra questa ulteriore mazzata. Davvero deve essere sembrato che fosse arrivata l’ora della fine del mondo!
Eppure ne sono usciti, l’epidemia è scomparsa e l’umanità ha ripreso allegramente a farsi la guerra. Una lezione che non è servita a niente. Così si può immaginare delle successive .
Sull’onda delle pestilenze “…e altri demoni” mi è venuto di ricordare (e rivedere) Nosferatu di Herzog con la peste che arriva con i topi a Wismar, sul Mar Baltico, nella metà dell’Ottocento, con la nave fantasma che trasporta il no sphiratu (o non morto).
Nosferatu, il principe della notte (Nosferatu: Phantom der Nacht) è un film del 1979 prodotto, scritto e diretto da Werner Herzog. È il remake del film diretto da Friedrich Wilhelm Murnau, Nosferatu il vampiro (1922).
Qui di seguito due scene: quella dei topi che scendono dalla nave (grazie a Gianni Sarro del ritaglio) e quella di Lucy (Isabelle Adjani) che si aggira per la piazza e tra la gente resa folle dalla paura:
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Da YouTube. Nosferatu; W. Herzog 1979: la peste
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Questo film è un capolavoro, incentrato su una personificazione del Male consapevole e sofferente della sua natura eppure impotente a cambiare. Klaus Kinski alla sua migliore interpretazione e Isabelle Adjani meravigliosa. Molte scene sono da antologia.
“Io ora al sole non attribuisco più nessuna importanza né alle scintillanti fontane che alla gioventù piacciono tanto. Io adoro solo l’oscurità e le ombre, dove posso essere solo coi miei pensieri. Io sono discendente di un’antica famiglia. Il tempo è un abisso, profondo come lunghe infinite notti. I secoli vengono e vanno. Non avere la capacità di invecchiare è terribile. La morte non è il peggio, ci sono cose molto più orribili della morte. Riesce ad immaginarlo? Durare attraverso i secoli, sperimentando ogni giorno le stesse futili cose…”.
L’interpretazione di Kinski che si trascina dolente nei panni del vampiro fornisce al suo dramma esistenziale una vena malinconica e poetica assente nelle precedenti messe in scena (con Christopher Lee e Bela Lugosi); ripresa dai “vampiri moderni”, edulcorati e “in pantofole”, come nella saga di Twilight (penombra – crepuscolo – tramonto): 2008 e anni successivi…
Kristen Stewart e Robert Pattinson nella saga di Twilight
Immagine di copertina: Pieter Bruegel il Vecchio, Parabola dei ciechi, 1568, Tempera su tela. Napoli, Museo di Capodimonte