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Di acque, di pozzi e di bestemmiedi Rita Bosso
La pubblicazione degli articoli di Arturo Gallia (leggi qui e qui) e di Franco De Luca (leggi qui) sui saperi idrici mi ha indotto a rileggere gli scritti di Giuseppe Silvestri; i link sono in fondo alla pagina. Palure o parule (ma anche siene) erano i terreni coltivati ad ortaggi della fascia costiera settentrionale dell’isola d’Ischia; qui, scrive Silvestri, “ gli interventi dell’uomo si erano limitati a costruire i pozzi con relative strutture per il funzionamento delle norie e le vasche di raccolta con i canali per l’irrigazione. Tutto in pietra di tufo verde e con intonaco di calce e lapillo. Altra opera dei contadini era costituita dalle “parracine”, che delimitavano alcune proprietà ma che avevano anche la funzione di proteggere le colture dai venti e dalla salsedine; i confini e le protezioni erano realizzati anche con siepi dette “mmarràske”, fatte di foglie di palma, di canne, dei cosiddetti “pennicilli” e soprattutto di rami di arbusti.” Ogni podere aveva il pozzo; la presenza di un suolo ricco di acque calde indusse all’utilizzo della noria (dall’arabo na-oriah = ruota idraulica per irrigazione), macchina azionata da un asino, che consentiva di prelevare ingenti quantità di acqua; l’acqua veniva immessa in vasche (pischère) in cui si raffreddava e decantava. “Ed allora dove si praticava un’agricoltura intensissima di ortaggi e soprattutto di pomodori furono realizzate le norie: macchine formate dal tamburo (ruota di trasmissione) con la parte centrale posta sulla sommità o bocca del pozzo e da vaschette (o secchi) che, fissate a due nastri o catene (la loro lunghezza era in relazione alla profondità del pozzo), discendevano vuote, si riempivano al momento dell’immersione e risalivano, facendo riversare l’acqua nel canale di raccolta, in un costante rinnovarsi di questo movimento circolatorio. Accanto al pozzo o anche ad una certa distanza si trovava una grande vasca, detta peschiera (pischera), in cui confluiva l’acqua dal canale di raccolta, dove evaporava e si raffreddava, prima di essere utilizzata per l’irrigazione. Nelle zone in cui l’acqua era a soli tre, quattro metri di profondità, non era possibile utilizzare le norie e si attingeva direttamente con i secchi. Noria, marraska: se parliamo di giardini e di irrigazione, inevitabilmente spuntano gli arabi. Franco De Luca esprime qualche perplessità sul turco (o arabo) che, tra un’azione piratesca e l’altra, costruisce un pozzo; come dargli torto? Ma forse il costruttore ha appreso la tecnica altrove, dai turchi, e poi l’ha messa in pratica a Ponza; forse la tartana ha dovuto sostare in porto per qualche giorno, in attesa che il levante si calmasse, e il turco benemerito ha spiegato al contadino autoctono come realizzare il pozzo, gli ha pure fatto un disegno; forse… chissà… i saperi, come già detto, si contaminano, si trasmettono, si adeguano: non stiamo mica scoprendo l’acqua calda! http://www.larassegnadischia.it/Rassegna%202006/rass1-06/citara.html Devi essere collegato per poter inserire un commento. |
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