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La religione dei nostri padri
I fatti di cronaca stanno evidenziando come il credo religioso sia invasivo nelle scelte di vita (individuali e collettive) al punto da divenire intolleranti e pericolose. Ora, senza nessuna pretesa di dottrina, vorrei presentare alcune riflessioni sulla sostanza della religione nella comunità ponzese. Saranno perciò attestazioni empiriche, tuttalpiù antropologiche, lontane dalla scienza e dalla teologia. La religione dei nostri padri era legata alla paura, alla precarietà, alla provvisorietà. Il Re li aveva scelti come coloni e dava loro i beni da cui trarre sostentamento per sopravvivere, sempre che Dio fosse consenziente con tale progetto. La religiosità era indotta dall’indigenza e dal bisogno. L’osservanza e la scrupolosità nelle pratiche religiose rassicuravano e propiziavano la clemenza di Dio e la sua misericordia. La religione, nelle credenze e nella pratica, era un accaparrarsi le grazie della Divinità e, in tal modo, ci si preservava dalle disgrazie, dalle avversità, dalle miserie della vita. Tutto questo argomentare vuole soltanto rimarcare come la religione dei nostri padri fosse pratica, legata all’esistenza materiale. Nessun volo metafisico, nessuna visione mistica, solo e soltanto una sottoscrizione di consociativismo: noi siamo con te (Dio) e perciò trattaci bene. Dei comandamenti due soltanto si ritenevano obbligatori perché legati al patto sottoscritto: a ) io sono il Signore dio tuo, non avrai altro dio all’infuori di me; b ) ricordati di santificare le feste. Gli altri seguivano l’andamento della convivenza umana e dunque potevano adattarsi alle situazioni. Sto rimarcando in modo grossolano l’aspetto della religione dei padri per distinguerla nettamente dagli assolutismi bigotti di cui le religioni monoteistiche si sono pure ammantati, e che tanto male stanno producendo. La religione dei nostri padri era concreta, priva sia di esaltazioni sia di efferatezze. Con una punta di speranza salvifica, questo sì. 3 commenti per La religione dei nostri padriDevi essere collegato per poter inserire un commento. |
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Che cosa ci hanno insegnato i nostri vecchi? …”Ognuno si prega il dio suo” oppure “Ognuno per sé e dio per tutti” o ancora “Dio vede e provvede”.
Ma non ci sono dubbi, il ponzese è un realista, legato alle cose concrete, alla terra intesa come vita ma soprattutto come proprietà.
L’antropologia religiosa a Ponza è ancora tutta da scrivere, secondo me, quindi fa bene De Luca ad approcciare il problema. Antropologia anche culturale e propriamente cultuale, attinente ai culti, ai riti, alle tradizioni. Me lo sono chiesto, a volte. L’isolamento, l’emigrazione a carattere di diaspora, la vita difficile dei nostri nonni e padri, avranno contribuito al culto del Santo patrono (le cui icone stanno anche nelle case degli emigrati). La fede semplice e persino commovente delle vecchie generazioni, la fede formale e ipocrita che viene esibita spesso in contraddizione con l’etica pubblica e privata, le nuove sette evangeliche, i rischi del fondamentalismo delle religioni monoteistiche. Per i culti a me piacque molto la singolare ricorrenza della madonna Civita, ad esempio. Poi in cosa crede chi crede, in cosa crede chi non crede, cosa sia credere di credere a intermittenza, sono altre questioni. Mi porrei anche la questione del peso della religione nel lungo dopoguerra, in chiave critica e non rammemorante e acritica, ad esempio, come spesso vedo che si continua a fare.
Questo di Franco De Luca è un contributo che tenta di mettere in risalto un aspetto della vita del ponzese quindi è una operazione culturale, un tentativo di chiedersi se non ci sia una particolarità del Ponzese nell’approcciarsi anche alla fede cristiana. E infatti il mio primo commento era legato a questa richiesta di comprensione.
I Ponzesi hanno dovuto vivere in mezzo al mare con pericoli che venivano dall’orizzonte che fossero i barbareschi, oppure i francesi, gli inglesi, i repubblicani e poi in casa i coatti, i camorristi, i fascisti ecc… e ancora hanno dovuto faticare per conquistarsi la proprietà terriera e stanchi, diffidenti a difendersi la sopravvivenza e la proprietà pregavano il loro Dio e il loro protettore, uomo, “‘u vicchiariell” San Silverio, su cui hanno sempre confidato perché era uno di loro e come loro aveva conosciuto la fatica e lo stento di stare isolati tra cielo e mare.
Quando un giorno Don Salvatore disse: San Silverio non fa miracoli, semmai intercede presso Dio per il suo popolo, è Dio che fa miracoli” – il popolo ponzese non lo comprese.
Sono questi contributi culturali che io apprezzo dagli intellettuali, che non siano solo idilliaci del mondo antico perso per sempre ma che traccino una continuità oppure delimitino un spaccatura tra il passato e il presente.
Dopotutto la storia aiuta a comprendere la realtà o no?