Politica

La  posta in gioco è il futuro del mondo

segnalato dalla Redazione

 .

L’editoriale
Il nuovo disordine mondiale
di Ezio Mauro – Da la Repubblica dell’11 dicembre 2023

Il cambio di scenario nella guerra russa in Ucraina ha un significato non solo strategico, ma politico e morale
Il conflitto parla anche di noi
Le democrazie alla prova dei fatti non sono all’altezza dei valori in cui dicono di credere

Il cambio di scenario che circonda la guerra russa in Ucraina ha un significato non solo strategico e militare, ma immediatamente politico: e addirittura morale. Le cause sono evidenti: l’incompiuta della controffensiva lanciata da Zelensky; lo stallo del confronto armato che mentre si prolunga congela i rapporti di forza, da sempre squilibrati a favore dell’invasore, ristabilendo le proporzioni della geografia sulle ambizioni della storia; la resistenza del Cremlino all’usura del conflitto, col suo costo enorme di vite umane e risorse; l’oscuramento del fronte ucraino davanti all’evidenza disumana del pogrom antiebraico di Hamas e alla disperazione senza vie d’uscita di Gaza; il disincanto dell’Occidente stanco di guerra e sempre più tentato di sostituire la realpolitik alla solidarietà. Che a questo punto rischia di rivelarsi non una scelta di valori ma un sentimento effimero incapace di produrre politica e fondare identità, se si basa sull’emozione invece che sulla condivisione.

Proprio l’Occidente rischia di uscire barcollante come un ubriaco da questa guerra europea, che in realtà riguarda un’altra volta il futuro del mondo.

Formalmente, il nucleo dell’impegno a fianco di Kiev regge, ma in realtà le spinte centrifughe sono tutte sotto traccia: in America i Repubblicani frenano sugli aiuti e paralizzano il fondo da 60 miliardi proposto da Biden, en attendant Trump , in Europa Orbán blocca col suo veto il pacchetto di 50 miliardi a sostegno all’Ucraina, confidando sull’appoggio della nuova destra in Slovacchia e in Olanda.
Ovunque il sovranismo eccita gli egoismi nazionali, vedendo nelle intese solidali il fantasma di nuovi internazionalismi da rifuggire.
Ma anche a sinistra la nobiltà della parola “pace” contrabbanda qualunque scorciatoia che avvicini comunque la fine del conflitto, a qualsiasi prezzo, visto che a pagare il conto sarebbero direttamente gli ucraini, e di rimbalzo le democrazie occidentali, che hanno provato a distinguere le responsabilità tra le parti in guerra, senza fare di ogni erba un fascio: e naturalmente queste democrazie per i populisti di qualsiasi colore non meritano nessuna considerazione e nessuna tutela, perché fanno parte del grande inganno.

Anche in Italia pezzi di destra e di sinistra danno corpo a questa visione che scava nella pubblica opinione, già colpita dalla pressione continua della crisi e oggi angosciata dalla guerra. Ogni segnale di resistenza da parte russa viene sbandierato come una vittoria, ogni contrattacco dell’Armata viene salutato come un successo, ogni richiamo alle ragioni di chi si difende dall’invasione viene sbeffeggiato come una menzogna guerrafondaia e imperialista. Zelensky è dileggiato, la corruzione ucraina ingigantita, i contrasti tra il vertice politico e quello militare diventano la prova che la capitolazione è necessaria.

Lo schema rosso-bruno è lo stesso di Orbán. Gli aiuti servono solo a prolungare l’inutile resistenza di Kiev e dunque a produrre altri morti per il protagonismo in tuta mimetica del leader: cambiamo strategia, chiudiamo i rubinetti e spingiamo così l’Ucraina — con Zelensky, o meglio ancora senza — a sedersi al tavolo di un negoziato con Putin per arrivare alla fine della guerra, aspirazione di ogni persona di buona volontà. Come, e con quali conseguenze, non importa, e in ogni caso non si dice.
La parola più nobile della vicenda umana — pace — copre tutto. Senza capire che una pace ingiusta e fondata sul sopruso non è pacificazione ma usurpazione. Che promette di far finire la guerra, ma segna l’inizio di un’epoca di instabilità e di licenza inaugurando il nuovo disordine mondiale, con i leader autoritari autorizzati fin dal primo giorno a sostituire il diritto con la forza.

È questo il mondo in cui vogliamo vivere, il secolo in cui ci stiamo inoltrando?
In realtà non si tratta soltanto di risolvere la contesa tra russi e ucraini, ma di capire cosa siamo noi occidentali, democratici a parole, sostenitori teorici dei diritti universali finché restano sulla carta. Appena prendono corpo in realtà conflittuali, l’universale si rattrappisce e diventa relativo, con i nostri distinguo: dipende, non esageriamo, non ora, non tutto e subito, non a questo prezzo, comunque non a mio carico. Come se i principii che guidano la nostra civiltà fossero gratis, sempre e comunque: se per caso costano, obbligandoci a scegliere, a schierarci, a difenderli — come talvolta accade — allora li ripudiamo o li abbandoniamo al loro destino, senza domandarci cosa resta della nostra presunta civiltà, spogliata dei suoi principii fondamentali, senza più nessuna proiezione metafisica, valoriale: potremmo dire sottovoce addirittura spirituale, se cerchiamo un’anima per la democrazia.

La guerra in realtà radicalizza tutte le nostre contraddizioni, costringendoci a guardarle. E prima di tutto sta rendendo drammatica l’oscillazione continua del pendolo tra il bisogno di sicurezza e il desiderio di libertà, ingigantendo le distanze tra i due poli. Negli anni del benessere espandiamo i diritti, accrescendo la qualità democratica delle nostre esistenze; davanti all’ansia della guerra che modernizza paure lontane siamo pronti a scambiare quote di sicurezza — per noi — con porzioni di libertà altrui, rinnegando i nostri principii e i diritti di chi chiede tutela. Senza accorgerci che la guerra parla anche di noi: e le nostre reazioni stanno già assicurando Putin che le democrazie alla prova dei fatti non sono all’altezza dei valori in cui dicono di credere. Il Cremlino ringrazia: «I 500 anni di dominio occidentale del mondo — ha annunciato ieri il ministro degli Esteri Lavrov — stanno volgendo al termine».

[Di Ezio Mauro, da la Repubblica dell’11 dicembre 2023

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