Dialetto

Filastrocca

di Francesco De Luca

 

 

Aria moscia, qualche goccia di pioggerella, lo scirocco-levante che intristisce e non si fa sopportare.
Meglio restare in casa. A far cosa? A guardare la superficie del mare che increspa, e le coste infastidisce; oppure a sentire il verso del tordo che saetta da un albero all’altro.
Oppure ad ascoltare la voce di ieri: filastrocche, tiritere. Versi sciolti con rima banale. Bagaglio lessicale come zavorra e ricchezza. Passatempo d’altri tempi. Quelli che si muovevano con lentezza, dietro alle condizioni del tempo, alle usanze paesane.
Non il tumulto della tecnologia. Non la frenesia dell’ innovazione. La mente, allora come ora, desiderava tragitti segnati, percorsi noti e consunti, dall’andare pigro, consueto.
Una filastrocca per consumare il tempo.

Filastrocca

Uno ‘u tuie
doie i soie
tre d’u re
quatto d’a iatta
cinche m’ ‘i tengo
seie ‘i meie
sette ‘i Cuccumette
otto ‘i Menecuzzotto
nove, chi ‘i move?
diece d’i miedece
unnece d’u sorece
dudece d’u giudece
tridece d’i muonece
quattordece quinnece e sidece s’ ‘i mangene i pullece
diciassette ind’a giacchetta
diciotto ind’u cappotto
diciannove ‘i chi ‘i trove
vinte scàvate ‘u fuosso e minate ‘a dinto.

C’è pure la versione recitata

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