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Viaggio attraverso i luoghi simbolo della dieta mediterranea (3). Il Salento

segnalato da Sandro Russo, da la Repubblica

MEDITERRANEA. 3
Come è dolce il barocco del Salento
di Marino Niola – Da la Repubblica del 9 agosto 2023

Dalla pasta di mandorla ai torciglioni di crema Un invito al sublime come l’architettura leccese
Siamo nel regno della cicoria resta (selvatica) e dei ciceri e tria, la leggendaria pasta e ceci con le lagane fritte.
Qui la gastronomia diventa poetica della povertà, metrica spontanea, erbario sapienziale, cuccagna quaresimale

Una volta il Salento era la terra del rimorso. Quello dei braccianti morsi dalla tarantola che li costringeva a ballare freneticamente per guarire. E quello di Medea che, dopo aver ucciso i figli, si rifugiò nel tacco d’Italia per sfuggire all’ira di Giasone. Adesso fra Otranto, Leuca e Gallipoli, la Notte della Taranta si balla a sfinimento, ma stavolta senza rimorsi. Perché nel frattempo l’antico simbolo del mal di vivere contadino è diventato un grande attrattore turistico. Eppure, sotto l’onda di superficie dell’invasione vacanziera, si avvertono ancora i fremiti di quel mondo magico. Ultima tana degli dèi pagani. Rifugiati nei simulacri effeminati di vescovi efebi. Riflessi negli occhi senza fondo di Addolorate con sette spade nel cuore. O mimetizzati nel candore abbagliante di chiese seicentesche, da cui si levano in volo santi in estasi. Come san Giuseppe da Copertino. E come San Paolo, antico signore dei furori e consolatore dei dolori dei tarantolati, soprattutto donne. Che il 29 giugno, giorno di Pietro e Paolo, si riunivano nella cappella del santo a Galatina e ballavano come baccanti invasate, sulle note ossessive della pizzica, una tarantella che ricorda le danze dionisiache.

Oggi in pellegrinaggio nella bianchissima e bellissima Galatina non ci vanno più i tarantati ma viaggiatori in cerca di buone vibrazioni. Ancora avvertibili tra le spighe del grano e le foglie del tabacco, tra i dolmen e gli spechi basiliani, come una presenza segreta, che si rivela nei bagliori visionari della campagna abbacinata dal sole. E lampeggia nel riverbero levantino del tramonto, quando il cielo diventa una sindone purpurea. Su cui si disegnano i profili onirici di menhir imponenti e qualche volta irridenti. Come quello di Martano, allusivamente soprannominato San Totano, per la sua forma vistosamente fallica. Cinque metri di altezza che ne fanno il più grande d’Italia.

Le architetture nobilissime della penisola stretta fra due mari sono diamanti di tufo che la luce della sera accende di giallo arancio. Maglie, Nardò, Ruffano, Casarano, Ugento, Specchia. È il Sud del Sud dei santi, come lo chiamava Carmelo Bene, dove tutto inclina verso Oriente, colori, odori, umori. Soprattutto in quella dodecapoli ellenofona che è la Grecía. Dodici paesi dove si parla il grico, una lingua neogreca piena di echi mitologici.

Calimera, Martano, Melpignano, Sternatia, Soleto, dominati dal bianco della calce, regina arsa e concreta di questi labirinti di pietra che si avvolgono intorno a dimore ducali maestose come regge. E dove il trompe l’oeil diventa sprezzatura architettonica, capriccio statico. Come la bifora di Palazzo Comi a Corigliano d’Otranto, i cui archi, in mancanza del pilastro centrale, poggiano sulle spalle di un angelo perigliosamente planante.

Siamo nel regno della cicoria resta (selvatica) e dei ciceri e tria, la leggendaria pasta e ceci con le lagane fritte.
Qui la gastronomia diventa poetica dell’indigenza, metrica selvatica, erbario sapienziale, cuccagna quaresimale. Pittule, pizzi e pitte, puddhiche, cocule e triddhi. Municeddhre, cecamariti e cozze piccinne, paparine, sanàpi, e zanguni, spunzali, seuche e pampasciuli, melunceddhre, sargenischi e cucumbrazzi, mùgnuli, rapacaule e munitule, carruzzitule, sprucini e pipirussi.

Ma per capire fino in fondo il Salento bisogna aver visto Lecce che di questa regione dell’anima è il teatrale geroglifico. Qui tutto ha forma e dimensioni barocche. La porosità del tufo, la tempra morbida ed immaginifica degli abitanti, i colori vivaci e i sapori sorprendenti dei cibi. A cominciare da pucce e sceblasti, i pani conditi con peperoni, cipolla, olive, zucchine e cime di rape. Un inno all’abbondanza frugale, che rende unica la gastronomia pugliese. Fino ai sontuosi rustici, fragranti dischi di sfoglia che racchiudono un filante ripieno a base di fior di latte, pomodoro, besciamella e noce moscata. Una genialata da accompagnare con il “caffè in ghiaccio”. Quello leccese è insuperabile.
In realtà il barocco salentino non è quello solenne e trionfante di Roma, né quello ardente e chimerico della Sicilia, e nemmeno quello alveolare e minerale di Matera. Qui il barocco è un modo di essere, di pensare e di sentire, sospeso tra le trame della ragione aristocratica e i ghirigori dell’arzigogolo costantinopolitano. È qualcosa che si coglie al primo sguardo e si sente sulla pelle. Basta addentrarsi nei labirinti della città vecchia che si avvolge su sé stessa in spirali compiaciute e ostentate, come salamelecchi di nobili di campagna.

Le architetture leccesi stanno fra l’incanto sognante e la fantasia gastronomica. Le strutture portanti delle splendide chiese di Santa Croce, Sant’Irene, Santa Chiara, quasi spariscono sotto una soffice fioritura ornamentale che fa pensare a una colonia di madrepore. Le colonne sembrano torciglioni di crema poggiate su amorini dai capelli cotonati come zucchero filato. Mentre gli altari dalle tinte caramellate, sembrano fatti di pasta di mandorle. Come quella, sublime, delle Benedettine di San Giovanni Evangelista.
Che, dalla penombra della vita claustrale la vendono attraverso la ruota degli esposti, la stessa dove una volta le ragazze madri affidavano i neonati alla misericordia divina. Bussate e vi sarà aperto, dice il Vangelo di Matteo.

Io ci ho provato una domenica di settembre. Una suorina mi chiede cortesemente il motivo della visita. Le dico di aver sentito cantare le lodi della pasta di mandorla del convento. «Mi dispiace ma è chiuso», sussurra, «oggi è il giorno del Signore. Ma comunque ne assaggi una». E mi porge un vassoio di dolcetti candidi, traslucidi come madreperla. Resto basito. «Che meraviglia!». Lei ovviamente lo sa già e sorride soddisfatta. Mi offre un altro pasticcino. E al mio «Sorella, lei mi induce in tentazione» mi affonda con una bordata evangelica: «non è peccato quel che entra nell’uomo ma quel che esce da lui, perché viene fuori dal suo cuore e dalla sua mente». Incoraggiato da questa assoluzione mi concedo un bis.

Immagine di copertina. Otranto. Il castello aragonese di Otranto in un’opera di Willey Reveley (1785) (The British Museum)
L’articolo originale, in formato .pdf: Repubblica 9 agosto 2023. Dieta Mediterranea.3. Salento

Per un articolo introduttivo sugli autori e sul libro
“Andare per i luoghi della dieta mediterranea” (con video): leggi qui
Per le puntate precedenti, Genova: leggi qui e Venezia: leggi qui.
(3. Continua]

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Comment

1 Comments

  1. Sandro Russo

    22 Agosto 2023 at 07:27

    Ho notato un evidente piacere dell’antropologo nell’assaporare le stesse parole, man mano che scende verso il sud (Marino Niola è di origine napoletana, leggo su Wikipedia) e le radici tracimano nelle preferenze gastronomiche così come nell’uso della lingua: “Qui la gastronomia diventa poetica dell’indigenza, metrica selvatica, erbario sapienziale, cuccagna quaresimale. Pittule, pizzi e pitte, puddhiche, cocule e triddhi. Municeddhre, cecamariti e cozze piccinne, paparine, sanàpi, e zanguni, spunzali, seuche e pampasciuli, melunceddhre, sargenischi e cucumbrazzi, mùgnuli, rapacaule e munitule, carruzzitule, sprucini e pipirussi”.
    A occhio questa Serie darà il meglio di sé nelle ultime due puntate, che riguarderanno la Sicilia e Napoli (!)

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