Africa

L’Africa che ho conosciuto. Il fenomeno migratorio

di Carlo Secondino

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Per avere un quadro un po’ più chiaro delle cause concomitanti che stanno trasformando l’idea del mondo quale ‘villaggio globale’ in un puro mito, vuoto di contenuti, è forse utile considerare, di questo epocale flusso migratorio, un aspetto che molti europei ignorano o, peggio, vogliono ignorare.
La maggior parte dei migranti che tentano di raggiungere le nostre coste sono, rispetto alla condizione culturale media della nazione di provenienza, tra le persone più colte o, quanto meno, le più acculturate.
Si tratta di giovani uomini e giovani donne, talvolta con figli al seguito; spesso, è proprio grazie agli studi compiuti e alle informazioni giunte loro attraverso i mass media, o da essi stessi cercate sui siti internet, che hanno trovato la spinta ad agire (o reagire); dopo aver maturato, magari, la convinzione che il proprio diritto a vivere più dignitosamente possano farlo valere anche in altre parti del mondo.
Alcuni di essi appartengono a famiglie che, anche se non benestanti, erano in possesso di qualche appezzamento di terreno e di alcuni capi di bestiame: beni che sono stati venduti per ricavarne almeno l’equivalente del costo del viaggio, che si aggira intorno ai cinquemila euro.
Altri, non disponendo di alcun bene da vendere, hanno contratto debito. Gli uni sono partiti con il forte proposito di ripagare i familiari rimasti dei sacrifici sostenuti, gli altri con quello di far fronte agli impegni assunti con i creditori.

Il più delle volte accade che il proposito ceda il posto a un’esile speranza prima, alla quale segue poi l’amara realtà di essere rimpatriati. Per respingimento. Un procedimento che, per l’apposito ufficio di uno degli stati europei, è un semplice atto burocratico, formalmente corretto perché compiuto in applicazione di leggi, avrà conseguenze inenarrabili per coloro che vengono destinati al rimpatrio.

A tornare indietro.
Indietro: dove? Presso una famiglia, la propria, che, se prima della sfortunata avventura riusciva a sopravvivere, dopo sarà destinata a fame certa? Tornare a fare i conti con i creditori, per un debito che non saranno mai in grado di estinguere?
Non meno tragico sarà il destino di quelle famiglie, tante, spogliatesi di ogni bene per permettere di emigrare a un loro congiunto che, nella traversata, avrà trovato la morte. Si tenga presente, per comprendere la drammaticità di simili odissee, che cinquemila euro, per la realtà economica delle regioni di provenienza dei migranti, sono un’enormità. Ed è la somma mediamente richiesta dai trafficanti di esseri umani per con- durre, tra sofferenze e stenti atroci, tanta povera gente sulle coste libiche e, di qui, fino alle coste opposte del Mediterraneo, quelle europee, principalmente alle nostre coste. Una traversata compiuta con la morte sempre in agguato, su dei barconi generalmente malmessi.

Il fatto che, per la maggior parte, i disperati che si avventurano in una impresa tanto difficile non siano i più poveri della Terra, è dunque un aspetto del fenomeno migratorio di cui molti di noi non tengono abbastanza conto, se non lo ignorano addirittura. Come sia possibile un’ignoranza così grave si può spiegare, probabilmente, considerando che si va facendo sempre più superficiale la visione che, da parte dei più, si ha delle problematiche relative al mondo contemporaneo. Una visione che, sempre meno, risulta essere il frutto di una osservazione attenta, alla quale segua un’analisi corretta che porti a una conoscenza più approfondita dei fenomeni globali.

E ciò avviene nonostante la quantità davvero notevole, inimmaginabile fino a qualche decennio fa, delle fonti e dei canali informativi disponibili. O forse le ragioni di una tale ignoranza risiedono nella stessa abbondanza di dati, che, esendo eccessivi, e per ciò stesso non sempre sufficientemente decodificabili, fanno sì che le informazioni restino dispersive e volatili. Solo raramente divengono conoscenza e, tanto meno, consapevolezza di una situazione globale sempre più complessa. Sta di fatto che per molti di quei ‘benpensanti’ che motivano la propria contrarietà all’accoglienza con gli argomenti più assurdi, ogni provvedimento volto a tenere a bada, o a respingere la massa dei migranti, porta alla soluzione del problema.

C’è ragione di ritenere che la pressione esercitata dagli spostamenti in massa potrebbe crescere. I migranti delle cui disperate imprese siamo testimoni non sono, come più su dicevo, gli ‘ultimi’ della Terra: ci sono centinaia di milioni di individui che popolano le fasce periferiche e gli slum di grandi città del terzo mondo, i quali vivono in condizioni più che miserevoli. Che non possono emigrare, per ora, né osare di fare alcunché d’altro per migliorare tali condizioni, per mancanza assoluta di mezzi.

Ci sono, poi, le popolazioni dei villaggi tribali, che forse si salverebbero se potessero restare per sempre, eventualità davvero improbabile, indenni, avulse dal mondo che attira negli ingranaggi della produzione.

Rendersi conto di quale sia realmente la situazione globale degli abitanti della Terra è, dunque, indispensabile per capire che l’assetto attuale del mondo è in un equilibrio più che mai instabile, provvisorio; che ben altri sconvolgimenti potrebbero verificarsi. E i sentimenti che permettono di ovviare alle ‘torri di babele’, inevitabilmente foriere di distruzione, non sono la paura e l’egoismo, bensì l’apertura mentale a comprendere; ad accogliere, pur nel diritto di esigere il rispetto dei limiti delle capacità del proprio paese a farlo. Ma i buoni sentimenti non bastano se non sono sorretti dall’idea della universalità dei diritti umani; dalla convinzione che è universale, vale a dire sacrosanto per ogni abitante della Terra, il diritto di aspirare a una vita più dignitosa; e il diritto, anche, di lottare con tutti i mezzi possibili, purché pacifici, per realizzarla.

Quei giovani samburu che mi avevano invitato a danzare, e che, apparendomi in contrasto abissale con il mio mondo (ideatore del cosiddetto ‘villaggio globale’), avevano dato l’avvio a queste mie riflessioni, non erano neanche sfiorati dal fenomeno migratorio.

E la condizione di esclusi da una tale possibilità si potrebbe ritenere positiva, appunto, se non avvenisse che è il mondo progredito e consumistico a prendersi la briga di avvicinarli.

Lo fa nel modo peggiore, attraverso oggetti fortemente simbolici, i quali minacciano di sfidare gli atavici idoli di quelle comunità indigene, i loro oggetti magici; e anche mediante l’abbaglio prodotto dal luccichio del denaro, che dei nuovi oggetti è in grado di consentire il possesso. E ciò avviene nei confronti di gente nella cui ancestrale cultura non c’è stato mai posto per l’ambizione a possedere, paga di poter disporre dell’essenziale; di quanto basti per vivere. In piena armonia con la natura.

[Dal libro di Carlo Antonio Secondino; “Piccoli sentieri d’Africa” pp. 97 e segg. (per la presentazione, leggi qui)]

 

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