Storia

A cento anni dalla Marcia su Roma, di Ezio Mauro

segnalato dalla Redazione

 

Seguito ideale di un articolo precedente – leggi  qui sul sito: l’intervista a Ezio Mauro di Concetto Vecchio-, un punto della situazione a cent’anni di distanza, pubblicato sul giornale nel giorno dell’anniversario

Il primo contingente Un gruppo di squadristi arriva a Roma il 28 ottobre 1922 [Getty Images]

Quel che resta della Marcia su Roma
di Ezio Mauro – Da la Repubblica del 28 ottobre 2022

Cent’anni dopo quel 28 ottobre in cui Mussolini prese il potere, la leader di un partito post-fascista guida il governo In un Paese in cui c’è chi quella storia la cancella per opportunismo, chi la dimentica perché troppo tempo è passato e chi la conserva Semplicemente perché è mancato un rendiconto che spieghi le colpe e le responsabilità nel ventennio in cui perdemmo la libertà

A distanza di un secolo cosa resta della Marcia su Roma che portò il fascismo al potere, aprendo la strada a vent’anni di dittatura? Le fotografie del Duce in camicia nera alla testa delle colonne con i quadrumviri, la voce stentorea della propaganda nei filmati dell’istituto Luce, qualche “sciarpa littoria” consegnata agli squadristi che avevano partecipato all’insurrezione, e rimasta nel fondo del grande armadio italiano dove finisce tutto: quel che si cancella per opportunismo, quel che si dimentica perché troppo tempo è passato e quel che si conserva senza una ragione, semplicemente perché è mancato un rendiconto finale che spieghi le colpe e le responsabilità dell’anno del Signore 1922, quando perdemmo la libertà.

Ogni Paese ha le sue feste nazionali, le date scritte in rosso sul calendario civile nei giorni che segnano il cammino di una comunità nel progresso, con le sue tappe gloriose. Così gli Stati – quelli che hanno corso quest’avventura – conservano la coscienza dei giorni dell’ignominia, quando la regolarità della libera convivenza nel rispetto delle leggi si spezza, una forza eversiva attacca le istituzioni violando la norma costituzionale che è a fondamento della vita associata e si entra nella stagione illegale dell’arbitrio e del sopruso. Per l’Italia moderna il giorno della vergogna nazionale è il 28 ottobre, data convenzionale della Marcia su Roma, il momento storico che contiene tutte le altre giornate del disonore nei vent’anni, dal delitto Matteotti alle norme speciali, alle leggi razziali, all’alleanza con Hitler, al disastro della guerra, alla cancellazione delle libertà politiche e della libertà di espressione. Contiene anche il saldo delle responsabilità degli altri protagonisti, oltre al Duce che si fa dittatore: la complicità dell’establishment, agrari e industriali in testa, la debolezza del sindacato, la divisione paralizzante dei socialisti, l’ipnosi sovietica dei comunisti, il ritardo dei popolari, la supponenza notabilare dei vecchi leader convinti di neutralizzare Mussolini, la connivenza di prefetti e questori davanti alla violenza squadrista, l’inconsistenza di un sistema politico che aveva divorato quattro governi in tre anni.

Il problema è che in Italia, a differenza di quel che accade in altri Paesi, non c’è una coscienza comune di questo appuntamento col calendario nazionale. Come se il passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista fosse un semplice cambio di stagione iscritto nel destino di un Paese avventurato, che ha permesso quell’esperienza, cui ha aderito, per poi digerirla nel distacco separandosene, ma senza fare i conti fino in fondo col suo significato e il suo segno nella storia d’Italia. L’operazione culturale di banalizzazione del fascismo, in corso da vent’anni, si è accompagnata a una demolizione dell’antifascismo, ridotto a pura sovrastruttura ideologica al servizio del Pci.

Morto il comunismo, l’anticomunismo si è ben guardato dal rivalutare l’antifascismo come cultura di riferimento dello Stato, nata da quella Resistenza alla dittatura che è la fonte nazionale di legittimazione della nostra Repubblica, delle sue istituzioni e della Costituzione: in sostanza della democrazia italiana, almeno in parte riconquistata, e non interamente concessa ed elargita dagli Alleati che risalendo il Paese lo hanno liberato.

La mancanza di consapevolezza è sostituita da una falsa coscienza, coltivata nel senso comune che vuole Mussolini convinto e sospinto da Hitler a lasciare la sua strada; e che di conseguenza considera gli errori e gli orrori del ventennio come semplici deviazioni dalla rotta originaria del fascismo. Si opera così una distinzione di comodo che recuperando l’ispirazione originale la salva in una presunzione d’innocenza, mentre riserva un giudizio di condanna solo per le altrettanto presunte deviazioni, universalmente condannate nel dopoguerra, da quando si scoprì l’inconcepibile, con la Shoah. Con questo artifizio si evita quel giudizio storico d’insieme, definitivo, completo, sulla natura del fascismo, che solo Fini ha dato a Yad Vascem, definendolo “il male assoluto”, nel silenzio dei suoi camerati, dei suoi partner di governo sedicenti liberali e moderati, e dei suoi colonnelli che si sono immediatamente rivelati usi a disobbedir tacendo.

Dopo la vittoria elettorale Giorgia Meloni, nella solennità del parlamento, ci assicura di non aver mai provato simpatia «per nessun regime, fascismo compreso, nessuna vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici». Un giudizio sommario, tra due virgole, che forse meritava più spazio e un’analisi più approfondita. Anche perché la valutazione del fascismo da parte del presidente del Consiglio è in controluce una valutazione della democrazia: proprio nel momento in cui i leader neo-autoritari e sovranisti attaccano i valori liberali dell’Occidente, sostenendo un modello alternativo di democrazia illiberale, senza le garanzie dello Stato di diritto, per lasciare libera in tutta la sua forza la potestà del leader eletto dal popolo e dunque per questo sciolto dalla regola dei controlli e del bilanciamento di potere. Risolvere il nodo perenne del riferimento ideale a quel mondo sommerso dalla storia è un’occasione e un dovere per chi ha la responsabilità di guidare una grande democrazia costituzionale, soprattutto se viene dall’esperienza del post o neo fascismo italiano.

Cent’anni dopo, com’è evidente, sarebbe sbagliato e più ancora ridicolo cercare analogie, anche per la sproporzione dei personaggi. Oggi fortunatamente manca un Mussolini, ma non c’è nemmeno un Turati, un Gramsci, uno Sturzo e un Giolitti: solo lo stampo politico dei Facta non è esaurito. Inoltre, viviamo in un’Unione Europea che non è soltanto un mercato comune e l’espressione di una moneta unica, ma il riconoscimento dei valori e dei principi della democrazia occidentale, con il suo vincolo di doveri e la sua garanzia di diritti. La destra estrema italiana che va al governo per la prima volta nell’Europa del dopoguerra ha ribadito alla Camera la sua scelta per la democrazia: ma ha un’idea diversa dell’Europa, dei diritti, dell’Occidente, della forma del nostro Stato, dell’articolazione dei poteri istituzionali, e quindi della Costituzione. In più, il populismo di ogni colore rilancia in ogni occasione il suo disprezzo per la democrazia, che con tutte le difficoltà della fase, tra le sue debolezze e le nostre infedeltà, ci ha garantito la libertà. Qui dunque si giocherà la partita del nostro futuro: sulla qualità della libertà.

 

 

 

1 Comment

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  1. Patrizia Montani

    31 Ottobre 2022 at 07:28

    Ieri 30 ottobre, in occasione del centesimo anniversario della Marcia su Roma, si è tenuta una cerimonia di commemorazione dei caduti del quartiere san Lorenzo che si opposero al passaggio delle squadracce fasciste.
    La manifestazione, organizzata dall’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) è partita da Piazzale Tiburtino, si è spostata al Parco dei Caduti 19 luglio ’43, a via dei Sardi e si è conclusa sulla piazza dell’Immacolata dove è stata deposta una corona di alloro.

    Nel quartiere di San Lorenzo, sorto fuori piano regolatore subito dopo l’unità d’Italia accoglieva per lo più ferrovieri, muratori, manovali e senza-lavoro; c’erano circoli anarchici, una sezione del partito socialista dove si faceva corsi di alfabetizzazione e formazione, associazioni cattoliche di assistenza e la prima scuola Montessori.
    Per i fascisti qui si concentrava il proletariato romano, per questo il quartiere fu aggredito più volte l’anno prima della marcia su Roma, ma ci fu una vera sollevazione popolare e gli aggressori furono respinti.
    Nel ’21 gli abitanti, schierati con gli Arditi del Popolo, respinsero l’aggressione con tutte le forze, sparando dalle finestre e gettando addosso agli aggressori oggetti di ogni tipo.
    L’anno successivo, all’arrivo della Marcia a piazzale Verano, San Lorenzo ingaggiò un duro scontro che lasciò sul campo morti e feriti. Ma un secondo assalto, con forze preponderanti ebbe successo.

    Il presidente Pertini ebbe a dire una volta che se in tutta Italia ci fosse stata un’opposizione ai fascisti come quella che ci fu nel quartiere di san Lorenzo e in poche altre occasioni, il fascismo non sarebbe mai passato.

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