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La tristezza di essere tristi

segnalato da Sandro Russo

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…Che uccelli di pleoccupazione e tlistezza volino sopla tua testa non puoi evitale.
Ma che costluiscano nido tla tuoi capelli, questo sì puoi impedile…
Plovelbio cinese

Abbiamo scritto tanto sul sito, a proposito di tristezza, nostalgia, saudade. In “Cerca nel sito”, colonna di sin., in Frontespizio, i tanti articoli relativi (…da cercare pochi per volta, però!). Ciononostante, questo non è un sito triste.
In: Ogni cosa è illuminata – un libro in tre tempi, favoloso e attuale, centrato sulla memoria e il suo recupero – la bis-bis bisnonna del protagonista conosce seicentotredici (!) tipi di vaga tristezza (che è una varietà di nostalgia), tra le quali la Tristezza dello Specchio, la Tristezza degli Uccelli Addomesticati, la Tristezza di esser Tristi davanti a un Genitore, la Tristezza dell’Umorismo, la Tristezza dell’Amore senza Scioglimento.
Leggi, del 2015, Elogio della Nostalgia (1) e (2), e relativi commenti

Riportiamo qui, per assonanza e autorevolezza, uno scritto di Enzo Bianchi dalla sua rubrica settimanale “Altrimenti” (il lunedì) su la Repubblica di ieri 24 ottobre

Elogio della tristezza
di Enzo Bianchi (*) 

Siamo ormai nell’autunno inoltrato: il sole è più pallido, le giornate uggiose e il vento fa cadere a terra le foglie spogliando gli alberi. Questa è la stagione che ispira sentimenti di malinconia e anche di tristezza in molti, ma soprattutto nei vecchi. E non è certo un caso che la tradizione religiosa abbia collocato nell’autunno la memoria dei morti.
Ma questa tristezza sobria che ci coglie è un sentimento negativo?
Perché oggi l’imperativo dominante è che non bisogna essere tristi.
Eppure la tristezza, la malinconia, sono sentimenti necessari per vivere in pienezza e se noi fossimo privati di queste esperienze saremmo privati di qualcosa che ci aiuta a vedere e leggere la realtà diversamente e a vivere con più chiarezza il ricordo del passato, nell’accettazione di ciò che non è più ma che è stato significativo.

Per non conoscere la tristezza sarebbe auspicabile vivere in una prigione dorata? La leggenda narra che il padre di Gautama, colui che diventerà l’illuminato, il Buddha, desiderando che il figlio non conoscesse né la tristezza né il dolore fece recintare lo splendido giardino della sua reggia impedendogli così di uscire e di conoscere la realtà del mondo.
Pensava che le ragioni per essere tristi stessero fuori del giardino! Ma un giorno Gautama riuscì a uscire e incontrò un malato, un vecchio decrepito e un morto. Conobbe la tristezza, ma quella fu la condizione attraverso la quale potè cercare l’illuminazione, acquisire la sapienza e diventare il Buddha.

La tristezza nasce da realtà umanissime: la mancanza, la sofferenza, la separazione, la malattia, la morte. Ma queste fanno parte della vita e non è possibile rimuoverle se non aderendo a illusioni. È però decisivo che la tristezza originata dagli incontri che facciamo e dalla nostra consapevolezza non diventi un inquilino stabile nel nostro cuore.
Se questo avvenisse la tristezza ci oscurerebbe lo sguardo del cuore e ci impedirebbe di vedere la luce di ogni giorno, il volto amico che ci appare in ogni incontro, la bellezza che vince ogni bruttezza. In questo caso la tristezza diventerebbe sofferenza, disperazione, ma più spesso acedia: l’acedia infatti è la “cattiva tristezza” accompagnata da noia, mancanza di desiderio.
Nella tristezza si può anche piangere come nella gioia, e le lacrime sono il linguaggio non verbale che dice “sì” alla vita.

Bonjour tristesse! Lo possiamo dire quando la tristezza si affaccia nella sua sobrietà come malinconia, turbamento dominato, silenziosa mancanza. Diceva il piccolo principe: “Sai, quando si è tristi si amano i tramonti…”, si ama quel clima silenzioso in cui viene la sera, si concludono i giorni sempre più brevi dell’autunno.
“Radiosa tristezza”, la chiamavano gli uomini e le donne della tradizione cristiana, “radiosa” perché è come la luce del tramonto che fa palpitare il cuore, fa tacere il cuore umile non altero e ci fa attendere un altro giorno.
Recita un haïku (1): “Il camino è acceso, il silenzio mi avvolge, gusto la tristezza!”.

L’autore. Enzo Bianchi 79 anni, saggista e monaco laico, ha fondato la Comunità monastica di Bose in Piemonte

[Da la Repubblica del 24 ottobre 2022]

 

Nota (a cura della Redazione)

(1) – Nell’haiku classico non manca mai un riferimento esplicito alla natura e alle stagioni ed ogni poesia ha il suo motivo dominante:

  • Yūgen: tradotto letteralmente come profondità e mistero, rappresenta lo stato d’animo prodotto dal fascino inspiegabile delle cose, il sentire un universo ‘altro’, colmo di misteriosa unità;
  • Wabi: letteralmente, soffrire o vivere in solitudine e tristezza, incarna un modello estetico dove la frugalità e la semplicità non sono viste come un ostacolo ma, all’esatto opposto, come un’irripetibile opportunità di comunione tra uomo e natura e, quindi, in ultima istanza, come manifestazione della verità poetica. Per altri autori, invece, wabi (l’inatteso), cioè quel senso di stupore e meraviglia che proviamo di fronte alle cose apparentemente più semplici e “scontate”;
  • Mono no aware: il sentimento delle cose, cioè la nostalgia, il rimpianto per il tempo che passa, la comprensione della mutevolezza e della caducità senza sofferenza;
  • Sabi: derivato dall’aggettivo sabishī (solitario, povero, ma anche scarno o avvizzito), rappresenta quella patina che avvolge le cose esposte allo scorrere inesorabile del tempo;
  • Karumi (leggerezza), la bellezza poetica riflessa nella sua semplicità, libera da preconcetti;
  • Shiori (delicatezza), il fascino che dai versi s’irradia verso il lettore, andando oltre la mera parola scritta, avvolgendo ogni cosa in un vago e indistinto alone di compassione ed “empatia”.

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